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A LA MORESCA

 

È spagnolo il primo documento che testimonia l'esecuzione di una moresca: siamo a Lerida, nel 1156.

 

Il termine moresca deriva da «morisco», aggettivo che in castigliano designa il moro, l'arabo. Anche se non ci è possibile affermare con sicurezza che la moresca sia nata in Spagna, a questa la  si associerà per sempre. Cinquecento anni dopo la sua comparsa a Lerida, gli «amanti» del Festino del giovedì grasso di Banchieri, «morescano» ancora «danzando lo spagnoletto».

 

Sulla sua origine si è molto discusso: alcuni  studiosi [1] la riconducono ad antichi riti consacrati al rinnovamento e alla primavera. Solo nel medioevo il contrasto fra il Bene e il Male, fra demoni e armate celesti declina, il Moro prende il posto del demone armato di spada o bastone e la moresca diviene l'emblema della lotta fra cristiani e musulmani. Identificato il volto nero degli inferi con il saraceno, «la moresca armata rinascimentale rappresenterebbe quindi la storicizzazione di un arcaico rito propiziatorio il cui significato si è perso a favore della sola componente spettacolare. Sopravvivono inconsciamente elementi gestuali, passi, pantomime e costumi. In particolare il volto annerito e la veste bianca dei morescanti richiamano l’abito degli spiriti infernali» [2]. Sonagli e campanelle portate alle caviglie o allacciate in vita costituistono un secondo elemento costante dell'abbigliamento del ballerino.

 

La moresca si diffonde in due diversi universi. Quello estremamente conservatore del folklore, dove mantiene intatta l'origine di danza guerriera rievocando ancor oggi il contrasto tra cristiani ed infedeli, e quello di raffinata pantomima cortese. A palazzo, moresca è un termine che assume vari e vaghi significati, divenendo sinonimo di danza armata, mascherata, ballo acrobatico, ma anche di maniera di danzare, saltare, camminare, parlare e gesticolare. Nel XVI secolo, si potrà anche morire «a la moresca»!

 

La moresca conquista l'Italia verso la metà del '400 e per due secoli sarà un elemento inalienabile da ogni sorta di rappresentazione dimostrando un'adattabilità sorprendente. Connota, infatti, balli in costume e danze guerriere, rievoca esotismo come mistero, epiche gesta come campestri fatiche di contadini. La moresca dà vita a danze di villani e di hebrei, di medici e chirurghi indiani, di ninfe e ruffiane, di scultori e calzolari; anima balli alla spagnola, alla francese, alla todescha, alla lombarda, alla fiorentina, all’uso di Etiopia. Il suo registro letterario è quello della vis comica, della leggerezza e del divertimento. La musica, omoritmica, rende il testo facilmente comprensibile permettendo all'uditore di gioire di lazzi, giochi di parole e doppi sensi.

 

La moresca è, innanzi tutto, la danza del Carnevale che col suo arsenale di maschere e scherzi ne è il complice più naturale. Interdetta in tempo di Quaresima, periodo di astinenza ed esaltazione dello spirito successivo al Carnevale, il contrasto tra questi due momenti dell'anno viene esaltato nel '500 recitando un «Testamento», testo da leggersi il martedì grasso, giorno che segna la fine delle festività carnascialesche e dà il via alla più austera Quaresima.[3]

 

Danzano la moresca otto o dodici ballerini, effettivo che può essere composto da sole ballerine, soli danzatori o gruppi misti in accordo a quanto si intende rappresentare. A eseguirne i vari ruoli sono chiamati giovani dilettanti reclutati ed addestrati per l’occasione da danzatori professionisti. Ai maestri spettano i ruoli virtuosistici ed acrobatici, come durante la Festa del Paradiso dove otto ballerini eseguono una piva con «molte partite de cavriole, scambiiti et salti»[4]. Si balla eseguendo acti, gesti e salti in stile moresco.

 

È il ritmo delle moresche che scandisce ogni cerimonia importante del XV e XVI secolo. Si danza alla moresca per il matrimonio di Tristano Sforza e Beatrice d’Este (1455), per quello veneziano (1459) e quello senese (1465) di Galeazzo e Ippolita Sforza, per quello romano (1473) e quello urbinate (1474) di Eleonora e Federico d’Aragona. Lo si farà ancora cento anni più tardi, per le nozze di Guglielmo V, figlio di Alberto V, duca di Baviera, cerimonie dirette da Roland de Lassus.

 

Gli apparati sono sontuosi e prevedono pantagrueliche collationi, carri trionfali, sfilate di doni nuziali, rappresentazioni di pianeti, danze, giostre e tornei a cavallo e numerosi interventi coreografici.

 

Bologna: Anno Domini 1487.

Nel gennaio 1487 si celebrano a Bologna le nozze tra Annibale Bentivoglio e Lucrezia d’Este, figlia del duca di Ferrara. Per cinque giorni, è allestito un banchetto seguito da rappresentazioni allegoriche ricche di azioni coreografiche e balli ideati dal mantovano Lorenzo Lavagnolo. L'evento è descritto da Sabadino degli Arienti [5]. Lo spettacolo si compone di parti recitate e interventi danzati con una netta prevalenza del ballo nel finale: in totale otto azioni coreografiche principali concepite per danzare una storia che ha come protagonista la sposa Lucrezia nelle vesti di una ninfa contesa da Venere e Diana.

 

Questa è la sintesi di una delle scene.

La rappresentazione è preceduta dal ballo di una «fançiuleta» fiorentina: «Cominciò a sonare un tamburino e zufoli che era dolce armonia sentire.... una fançiuleta fiorentina de anni sei cum uno omo incominciò a dançare cum tanta legiadria e dextreça e acti e salti ... che è cosa incredibile a chi non l'avesse veduta

 

Al termine dell'esibizione segue l'allestimento a vista dello spazio scenico. A passi di danza, vengono introdotti gli elementi che compongono la scenografia con all'interno i protagonisti: la Torre, sede di Giunone e di due giovani (uno dei quali rappresenta lo sposo Annibale); il Palazzo, dimora di Venere, di Cupido, di due donne (Infamia e Gelosia) e di quattro imperatori con le rispettive dame; la Montagna, abitata da Diana e da otto ninfe; un sasso che nasconde una ballerina e otto morescanti.

 

Composta la scena, sei cantori «cominciarono a cantare suavemente una danza, che si chiamava La caccia» e immediatamente Diana e le ninfe, vestite di seta e «cum legiadri veli e cum archi, faretre e dardi e cornitti al collo», escono dalla montagna e mimano una scena venatoria. Al termine dela danza, si ode una «suave melodia» sulla quale le ninfe eseguono una bassa danza disposte in circolo; è quindi il turno di Cupido, che «con passi tardi e lenti» entra di nascosto nel cerchio delle ballerine e con un dardo colpisce la ninfa Lucrezia. Trafitta dall'amore, la smarrita ninfa è divisa tra le lusinghe di Venere e Diana fino a quando l'intervento di Giunone risolve in favore del matrimonio con un ballo per coppia, trionfo dell’unione. Protagoniste di questa danza, denominata «Vivo lieta», sono le coppie formate da Giunone e un giovane, e dalla ninfa Lucrezia e lo sposo Annibale. Ritualizzato l’incontro tra gli sposi, Cupido scaglia un dardo verso il Palazzo e, come a un segnale convenuto, ne escono i quattro imperatori che insieme alle rispettive regine formano un ballo in onore della coppia «danzando suso e giuso incontro l'uno e l’altro».

 

Conclude i festeggiamenti un ulteriore intervento spettacolare. Giungono in scena una giovane e otto morescanti accompagnati «dal suono de uno tamburino et altri dulci instrumenti». La ballerina danza «ala moresca» e tiene nelle mani un fiore e una «pomarança», variante simbolica della mela cotogna, frutto sacro a Venere, simbolo della fertilità e dell’unione coniugale. I ballerini, dai volti anneriti, con vesti «moresche di candida tela» e sonagli, danzarono con «leggiadria» attorno alla fanciulla fino a quando, «svegliati da più gagliardo suono degli strumenti», si mettono a ballare con «acti et gesti misurati et a tempo de tanta agilità et destreça».

 

La rappresentazione riserva ancora un ultimo atto con l’ingresso in scena dei giovani appartenenti al Consorzio dei Bechari, «amicissimi per antiquo de la famiglia». Col viso coperto e sonagli alle gambe, i ballerini del Consorzio si esibiscono in una danza figurata «voltandose e revoltandose» sotto dei cerchi di «fronde di bussio» con delicati movimenti delle braccia che fanno «uno bello et dilectevole vedere». La serata si chiude con il ballo degli invitati.

 

 

 

 

LA MORESCA «ALLA NAPOLITANA»

La moresca, probabilmente introdotta dagli spagnoli, trova a Napoli una terra feconda dove attecchire. La moresca napoletana è vocale; la canta un trio in genere formato da due soprani e un tenore o da due tenori e un baritono. Gli esempi napoletani sono i più antichi di questo nuovo genere della vocalità italiana riconducibile più alla pantomima e al teatro che non alla danza. Molte di loro conosceranno nuove versioni e nuovi arrangiamenti come la celebre Chi chi li chi, pubblicata prima a Napoli per il classico trio vocale partenopeo, e riorganizzata, in seguito, da Roland de Lassus  ed Andrea Gabrieli a sei voci. Pur mancando pubblicazioni interamente dedicate alla moresca, si diffuse il vezzo di porne un paio a conclusione di ogni antologia di villanelle stampata.

 

Il repertorio che queste raccolte presentano non ricorda più la danza guerriera dell'origine. La moresca napoletana non ha alcun elemento della danza. Il suo nuovo costume è quello della villanella da cui prende a prestito l'effettivo a tre voci, i movimenti di quinte parallele, l'instrumentarium e il pittoresco universo poetico. Alla villanella, però, fa dono di due nuovi personaggi da cantare ed inserire nella sua già vasta iconografia: il saracino/turcho e la mora/turcha/pagana. Se il primo  corrisponde all'icona del guerriero infedele, la seconda incarna una seduzione ancora più insidiosa di quella della villanella. Sebbene siano entrambe riconducibili ad un rappresentazione della vita semplice, pura e intatta del mondo contadino, la mora/turcha dispone di un'arma letale: il mistero che l'avvolge come un velo esotico e sensuale. È la fascinazione di un «altrove», di un «aldilà» che prende vita con la mora. La sua provenienza geografica finisce per non avere alcuna importanza e, certe volte, mora diviene un aggettivo adattabile all'araba come alla spagnola.

 

Nei testi delle moresche napoletane ricorrono liolele (falilalilà, dindirindin, ecc.), onomatopee (lirun lirun ad imitazione del suono di viole da gambe e lire), imitazioni di lingue ed accenti stranieri (Matona mia cara per Madonna mia cara), grida di mercanti e venditori; prendono la parola anche gatti, cani, asini, cuculi, cornacchie per formare esilaranti contrappunti bestiali. Non mancano alcuni tipici personaggi della commedia dell'arte come il Mattaccino [6] e la Gatta [7].

 

Tutti questi elementi Napoli li ha già cantati nelle sue villanelle, ma con la moresca diviene possibile trasferirli dalla poesia al teatro dando concretamente vita al pittoresco mondo che descrivono. È un passaggio significativo che ci permette di inscrivere la moresca nell'ambizioso progetto umanistico di assegnare alle muse un tetto comune, di veder risorgere il loro magico concerto dalle ceneri del passato e che ci condurrà gradualmente all'inventione del teatro in musica.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Marius Schneider, Kurt Sax, Paolo Toschi, solo per citarne alcuni.

 

[2] Jose Sasportes, Storia della danza italiana.

 

[3] Quello che conclude il nostro concerto, il suo autore ce lo presenta cosÌ.

LO TESTAMENTO DE LO  CARNEVALE, ovvero canzune e stramuottole poeteche fatte da paricchie Auture Napolitane che se facevano a Napole lo Carnevale, aunate, e raccovete da dinto a monnezza da lo MagnefecoDottore senza dottrina D. Giuseppe Sigismunno.Si tratta di una raccolta di poesie e canzoni nella quale l'autore riunisce cose aggraziate, concettose e saporitelle, per far sbottà Sciorenza, Pisa, Siena e tutta la Toscana e ai Trionfi del Carnevale mediceo oppone la moresca napoetana.

 

[4] Milano, 13 gennaio 1490. La Festa del Paradiso fu offerta da Ludovico il Moro ai giovani sposi Gian Galeazzo Sforza e Isabella d'Aragona.

 

[5] Giovanni Sabadino degli Arienti, Biblioteca Palatina, ms. parmense 1294.

 

[6] Il termine mattaccino - che non si sa se derivi dallo spagnolo matachín, giocoliere, dall'arabo mutawaǧǧihīn, mascherato, o dall'italiano matto - definisce al tempo stesso una maschera e una danza. La maschera nasce probabilmente in epoca latina. Il mattaccino della Commedia de l'arte è un buffone che balla sotto le mentite spoglie di guerriero armato eseguendo giochi di agilità, acti moreschi e burle. Il ballo, di consequenza,  è una rappresentazione grottesca di una danza guerriera, eseguita da danzatori che a coppie simulano un duello indossando una corta tunica, un elmo di cartone dorato, spada e scudo.

 

[7] La maschera della Gatta - maschera più conosciuta nella versione veneziana di Gnaga - è un travestimento che prevede di assumere le sembianze di una donna imitandone anche il gesto e l'intonazione vocale. È la maschera prediletta degli omosessuali che, durante il Carnevale - nel '500, il Carnevale  a Venezia comincia il 27 dicembre e finisce il giorno di martedì grasso - nascosti e protetti dalla maschera da gatta possono assumere ogni sorta di atteggiamento licenzioso senza il timore di incorrere in problemi con la legge.

 

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