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NEL MEZZO DEL CAMMIN DI NOSTRA VITA

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

ché la diritta via era smarrita.

 

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte

che nel pensier rinova la paura!

 

Tant' è amara che poco è più morte;

ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,

dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

 

 

 

Perché Dante Alighieri racconta la sua discesa verso l'Inferno alla metà della sua vita? «Nel mezzo del cammin di nostra vita»: si tratta della fine di un inizio o dell'inizio della fine? L'assoluto di questa data significa che ogni creazione — come ogni «retta via» — ha inizio «in medias res»? Qual è il senso profondo di questa formula inaugurale?

 

L' incipit della Comedia ci segnala, da una parte, una separazione topografica, una linea di demarcazione tra la «selva oscura» e la felice collina che riluce dello splendore divino, e, dall'altra, il «mezzo della vita» evoca una frattura cronologica tra il tempo della giovinezza, dei suoi errori e della libido, e l'età adulta governata dalla ragione. Analoga rottura la si ritrova anche nella poesia dantesca. Con i trentacinque anni, il poeta abbandona il vago versificare del «dolce stil novo» della Vita Nova per dedicarsi alla «parola divina» della Comedia. Da un lato, i sogni dell'adolescente minato dai consigli dell' «angelo della giovinezza», da «fantasie» e «vane speranze» che lo condannano a «fantasmare come persona in delirio», a sacrificarsi agli idoli dell'amor cortese e alla moltitudine delle figure del desiderio. Da l'altro, il poeta della Divina Comedia che beneficia della protezione «spirituale» degli «angeli divini».

È quanto Beatrice ci ricorda alla fine del Canto XXX del Purgatorio:

 

Alcun tempo il sostenni col mio volto:

mostrando li occhi giovanetti a lui,

meco il menava in dritta parte vòlto.

Sì tosto come in su la soglia fui

di mia seconda etade e mutai vita,

questi si tolse a me, e diessi altrui. [...]

e volse i passi suoi per via non vera.

(121-130.)

 

La nozione di «soglia» alla quale Dante allude trava il suo mode d'emploi nella riflessione sulle «età della vita» esposta nel Convivio. La «piramide» delle età è ordinata secondo la sequenza: adolescenza, giovinezza, vecchiaia, età caduca. La prima tappa comprende i nostri primi venticinque anni; la seconda ci porta fino ai quarantacinque; con la vecchiaia si giunge ai settanta e agli ottanta con l'età caduca. Questa tetrade, in realtà, si riduce ad un'opposizione binaria: come infatti ci insegna l'allegoria aristotelica dell'arco teso, l'esistenza umana è una curva ascendente prima e discendente dopo, il cui «clinamen» corrisponde al trentacinquesimo anno di vita. Sul simbolismo fatidico di questa cifra, il Convivio dà una giustificazione che merita ogni nostra attenzione:

 

E muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo, lo quale volle morire nel trentaquattresimo anno della sua etade; ché non era convenevole la divinitade stare in cosa in discrescere, né de credere è ch'elli non volesse dimostrare in questa nostra vita al sommo, poi che stato c'era nel basso stato della puerizia. E ciò manifesta l'ora del giorno della sua morte, ché volle quella consomigliare con la vita sua; onde dice Luca che era quasi ora sesta quando morio, che a dire lo colmo de lo die. Onde si può comprendere per quello "quasi" che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo della sua etade.

(Convivio, XXIII 10)

 

Nella tradizione medico-teologica l'età di mezzo rappresentata dai trentacinque anni corrisponde al momento in cui l'armonia dei quattro umori perviene ad un equilibrio perfetto nell'organismo proiettando l'essere umano verso le sfere più alte della vita contemplativa. Nel momento cruciale del suo percorso psicologico, l'uomo supera l'handicap delle sue origini per assumere il ruolo di «malinconico geniale» (Aristotele). Il limite dei trentacinque anni rappresenta dunque il punto critico della sua esistenza (kairos), dove «è necessario guardarsi indietro come avanti»; l'adolescente malinconico che accede alla maturità deve sacrificare il proprio narcisismo per affrontare l'immagine simbolica dell'Altro.

 

Ché, sì come Aristotele dice, l'uomo è animale civile, per che a lui si richiede non pur a se ma altrui essere utile. Onde si legge di Catone che non a sè, ma a la patria e a tutto lo mondonato esser credea. Dunque appresso la propria perfezione, la quale s'acquista nella gioventute, conviene venire quella che alluma non per sé ma per li altri; e conviensi aprire l'uomo quasi com'una rosa che più chiusa stare non puote, e l'odore che dentro generato è spandere.

(Convivio, XXVII 3)

 

La Divina Comedia, per Dante è un atto necessario, un passaggio obbligato, una mediazione concepita per liberarlo dalla prigione del lirismo amoroso delle origini in vista di una narrazione epica che comincia «in medias res».

 

 

 

 

Roberto Festa

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