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"All' horto se ne vien la villanella" - cito il testo di una canzone - La Dame-simbolo dell'amore più puro, d'una purezza eguale a quella dell'acqua racchiusa nella brocca che danza aerea sul suo capo; simbolo di un amore che non vale oro o argento, ma rosse ciliege e pesche profumate.

Villanella, felice ancella dell'innocenza, quante serenate ha già ascoltato la tua finestra? quanti cuori ha spezzato il tuo diniego? e le speranze, quante notti hanno pazientemente atteso?

 

 

Sull' origine della Villanella

 

Addì 24 ottobre 1537: una cometa che attraversa lo stellario della Storia della Musica, annuncia la nascita di un nuovo genere : la Canzone Napoletana. Il nostro programma celebra la più antica delle antologie napoletane (Canzoni Villanesche alla Napolitana : Johannes de Colonia, Napoli 1537), primizia di un genere che, fino ai giorni nostri, non ha mai cessato di esistere e di uno stile che si vorrebbe nato sotto il segno della spontaneità di un popolo istruito nel canto dalle sirene di omerica memoria.

 

Non è stato possibile scoprire se il giorno della pubblicazione della nostra antologia corrisponda ad un evento particolare celebrato in città. Certo è, però, che sono pochi i generi musicali di cui possiamo festeggiare il compleanno: possiamo forse dire con la stessa precisione, quale sia stata la prima Frottola o il  primo Madrigale?

L'editore di questo primo libro di canzoni è puro mistero: di Johannes de Colonia non esistono pubblicazioni precedenti o successive, e il todescho non risulta iscritto in alcun albo delle congregazioni delle arti e dei mestieri napoletane cinquecentesche. Parafrasando Calvino, potremmo parlare di lui come de "L'Editore inesistente"?

L'antologia contiene esclusivamente canzoni di autore anonimo. Che il nostro così facendo voglia comunicarci o farci credere di aver attinto la sua acqua dall' ancestrale serbatoio della tradizione è fuor di dubbio; ma possiamo immaginarci un De Colonia che diligentemente nota i canti che ascolta nelle vie di Napoli sul suo tacquino? un precursore rinascimentale di Bártok o di Kodali?

 

Villanesca è un termine che, come abbiamo già detto, ci parla del popolo eletto delle sirene e dei suoi canti. Ma Villanesca è, al tempo stesso, il termine che permetterà di giustificare le anomalie strutturali di uno stile che si impone in virtù di una morfologia musicale e uno instrumentarium tutto suo generis.

 

Le anomalie :

- il frontespizio dei tre libri parte (superius, tenor, bassus) del Colonia ritrae tre paesani, tre uomini, che alleviano col canto le fatiche del lavoro nei campi. Allo stesso modo, la poesia, i testi delle canzoni, parlano prevalentemente al maschile, introducendo quel repertorio di immagini e di luoghi che alimenterà la canzone napoletana fino ad oggi: le serenate, gli "inciuci" di una vecchia comare, le eleganti metafore di testi licenziosi, il mal d'amore e la solitudine.

Quando però osserviamo le tessiture delle canzoni, ci sorprende che queste richiedano un ensemble formato da due soprani e un contralto, un gruppo vocale, cioè, al femminile.

Perchè le note, le tessiture delle canzoni, non parlano la stessa lingua dell'iconografia e della poesia?

- Le voci, nel loro fluire, procedono sovente per triadi parallele conservando la loro posizione fondamentale, e producendo così, contro le regole di ogni grammatica musicale, vietatissimi movimenti di quinte parallele.

- La teoria rinascimentale vuole che ogni voce della composizione abbia movimenti e funzioni specifiche. Nella villanesca il superius si comporta come nelle regole del contrappunto ordinario fa un tenor e il tenor come un superius.

- L'insieme vocale napoletano è a tre voci in un epoca che ha eletto il quartetto a simbolo di perfezione.

 

E, infine, una riflessione sul calascione, lo strumento principe per l'accompagnamento della villanesca. A Napoli, ettolitri di inchiostro tessono le sue lodi. Celebrato nelle canzoni come nei versi dei poeti, da cronisti e viaggiatori, il calascione (chiamato anche colascione o tiorba a taccone) è uno strumento che apparentemente giunge in città dal vicino oriente o dalle coste more del nord Africa. In una celebre incisione settecentesca viene chiamato "colascione turchesco" e, in effetti, assomiglia molto al saz : tre corde  doppie, un manico stretto e molto allungato, la cassa di risonanza a forma di goccia che ricorda quella di un mandolino. Napoli, però, nel XVI secolo è un vicereame spagnolo e nella penisola iberica l'uso del liuto venne osteggiato in virtù dell'origine araba del suo nome. A cosa dobbiamo questi due atteggiamenti diametralmente opposti?

 

Ogni repertorio porta con sé uno strascico di interrogativi e un'infinità di risposte. A me, però pare possibile identificare un comune denominatore, un legame tra gli elementi che ho appena menzionato.

Se immaginiamo, infatti, la canzone villanesca come una dotta allegoria della vita paesana, di un'età dell'oro e della semplicità, le nostre anomalie e le apparenti contraddizioni divergono elementi fecondi di significato. Una canzone che si esprime in dialetto napoletano, una lingua cioè non accademica, non può obbedire alle regole del contrappunto ordinario, quello del primo italiano ufficiale, il volgare di Bembo, del petrarchismo e del madrigale. Ogni anomalia quindi viene creata per sottolineare la "popolarità" di questo stile. Il popolo non conosce le regole della teoria musicale e, di conseguenza, lo stile dei sui canti sarà sgrammaticato, imperfetto. Le tessiture, le quinte parallele, il trio vocale sono, in pratica, gli elementi di un linguaggio che fa dell'"errore" il simbolo ideato per rappresentare l'Universo Villanesco.

 

Praticamente, a Napoli venne  inventato un linguaggio che doveva rompere con gli accademismi e soprattutto con la toscanizzazione della lingua poetica italiana, una nuova grammatica che si allontanasse il più possibile dai modelli toscani di Petrarca (per la Poesia) e Boccaccio (per la Novella).

La canzone villanesca nasce per cantare la nostalgia de lo bello tiempo antico, l'epoca delle  canzune massiccie, delle parole chiantute, e dei concierte a doi sole[1]; dov'è finita la bella antichetate, ... dove la fama o villanelle mei napolitane?[2]quell'età dorata quanno n'c'era no poco cchiù d'alleria pe' 'sta cetà[3]... l'era felice in cui non si sentivano solo arie cantate tutte ntoscanese[4]?

Per comprendere le ragioni di questo alterco accademico bisogna risalire all'origine stessa della poesia in volgare, al De Vulgari Eloquentia - scritto presumibilmente tra il 1303 e il 1305 - il trattato, in cui Dante Alighieri sostiene una tesi che si rivelerà determinante per il successivo sviluppo delle lingue letterarie in Italia: il volgare, la lingua che i bambini imparano ad usare quando incominciano ad articolare i primi suoni, che ricevono imitando la natura, senza bisogno di alcuna regola, si oppone in quanto lingua naturale al latino, unica lingua che a quei tempi venisse insegnata grammaticalmente nelle scuole, idioma artificiale, perpetuo e non corruttibile, lingua della Chiesa e dell'Università.

L'assunto di Dante implica un vero e proprio capovolgimento della situazione e coloro che nella cultura greca e latina venivano definiti barbaroi, ossia esseri che balbettano parole incomprensibili, diventano adesso i depositari della lingua naturale, la lingua omnieffabile, capace cioè di trasmettere tutto l' insieme delle nostre esperienze fisiche e mentali.

Il volgare nasce per opera divina e per questa ragione è degno di essere scritto e parlato. Il Signore, infatti, per punire l'orgoglio degl' uomini ed impedire la costruzione della Torre di Babele disse:

 

Discendiamo e confondiamo la loro lingua,
in modo che essi non si comprendano più gli uni con gli altri. (Genesi XI/7)

 

Fu così che il volgare acquistò una sua dignità poetica e ancora oggi Dante, Petrarca e Boccaccio, il triunvirato toscano, vengono coronati come i padri della lingua italiana.

Anche Bembo e tutto il vasto arcipelago dei poeti petrarcheggianti attivi nell' Italia rinascimentale, alla ricerca di un volgare poetico, cercheranno nei "divini poeti" del medioevo toscano l'esempio eccellentissimo per le proprie poesie: ma solo Petrarca e Boccaccio superarono l'esame degli esigentissimi accademici; a Dante non fu accordata la tribuna d'onore in virtù della scarsa musicalità della sua poesia. Con o senza Dante, il toscano diviene comunque "la lingua ufficiale" della poesia italiana.

Tra i più accaniti oppositori al petrarchismo troviamo, come si è già detto, i napoletani. Nell'appassionata difesa della propria autonomia linguistica, contrappongono ai toscanismi madrigalistici dei petrarchisti, il colorito e vivace dialetto di una Napoli euforica e fiera della propria identità, della propria ricchezza e della propria  grandeur.

A conclusione di questa già troppo lunga presentazione, offro un testo tratto da:

 

LO  TESTAMENTO  DE  LO  CARNEVALE
ovvero canzune e stramuottole poeteche
fatte da paricchie Auture
Napolitane

che se facevano a Napole lo Carnevale, aunate, e raccovete da
dinto a monnezza da lo Magnefeco Dottore senza dottrina
D. Giuseppe Sigismunno

 

una delle opere più significative dell' atmosfera che, in quegl' anni, regnava nella Napoli letteraria:

 

Sulo pe' fa' sconocchià a li Sciorentine e a li Toscanise, m'è benuto dint'a lo chierecuoccolo d'auna'ste quatto  canzuncelle fatte a la 'nterlice e a la babbalà da cierte galantuommene de lo paise mio, che de cose aggraziate, concettose e saporitelle, ne sbotta Sciorenza , Pisa, Siena e tutta la Toscana.

...

'Ste quatto fetecchie puro se la fanno 'na puniata co' tutte li Triunfe, co' tutte li Carre Ammascherate e co' tutte li Cante carnevalische ch'aunate a Sciorenza, 'n tiempo de don Ciccio Medici, chillo satrapone del Lasca.

...

 L'autore nuoste, mperrò, non se potevano maie smacenare ca noiuorno o n'auto sti scartafacce, che 'n tiempo de Carnavale se stampavano a fuoglie volante, se spenzavano a la gente vascia pe le chiazze, non già a li letterummeche e dinto a li studie prubbeche, se leggevano da chi aveva tiempo da perdere, se faceva na risata a schiattarello, e po' li mercante nce arravogliava lo strappo, lo speziale lo zuccaro e tutta la spiezia, lo casedduoglio, lasoppressata e la provola, lo sauzummaro l'alice salate e la tonnina, lo pescivendolo lo ttunno e le fragaglie, e quaccuno, come la carta era frolla, se ne serveva pe sarvietto de la vocca de lo stentino retto.

...

E se Filippo Sgruttendio co' la bella Tiorba a taccone la sonaje a lo Petrarca; La Rosa de Cortese la ficcaje a l'Aminta  del Tasso e a lo Pastor Fido  de Guarino; Lo Cunto de li Cunte  a le Novelle  de lo Si' Boccaccio; l'Egroghe  de l'Abbattutis a chelle de lo Si' Nazario, e ghiate vuje discorrendo, accossì 'sti strammuottole carnevalische de li Mangia-foglie nuoste, te scacarranno tutte li Triunfe de li mangia-fasule, e no' le mannarranno a Roma pe' penitenza.

Addonca mo' 'j leggo, e Vvuje ascoltate, ridite e stateve bbuono.

 

 


 

[1] "Calliope, overo la Museca" di Giovan Battista Basile

 

[2] "Calliope, overo la Museca" di Giovan Battista Basile

 

[3] "Lo Testamento de lo Carnevale" di Giuseppe Sigismunno

 

[4] "Lo Testamento de lo Carnevale" di Giuseppe Sigismunno

 

DELIZIE NAPOLETANE ovvero IN LODE DELLA VILLANELLA

 

Sebbene il termine villanella significhi letteralmente giovane paesana, poeticamente induce ad una polisemia di significati assai complessa. Al tempo stesso icona della donna ideale, rappresentazione della vita semplice, pura e intatta della campagna (potremmo allineare all'infinito le qualità ideali della villanella), diametralmente opposta a quella urbanizzata e alla sua esistenza sofisticata, bugiarda, ingannevole, la villanella, simbolo tangibile della nostalgia che il Rinascimento nutre per "l'anima antica ed eterna del mondo", rappresenta ad un tempo la persona-concetto e una nuova epifania (mutata mutandis?) della Dame dei trovatori di medievale memoria.

 

In Lode della Villanella è una promenade musicale nel Giardino delle Delizie, nei suoi segreti e negli incanti della sua intimità. Il giardino è luogo e percorso, nel quale si succedono, come stazioni ideali, una serie di tappe necessarie e fatali. Sito solitario, spazio contemplativo da dividere con il canto degli uccelli e con fontane dalle acque "dorate comm' o sole". Luogo ideale per cantare gli amori mai dichiarati, le speranze, le vane attese e le disillusioni; nido, infine, per gli incontri più segreti e le più sincere serenate.

 

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