LA FAVOLA DI ORLANDO
IL CAPRICCIO DI JACHET DE BERCHEM
OVVERO IL MADRIGALE AL SERVIZIO DEL DRAMMA
Niente ci assicura che la musica de La Favola di Orlando – composta da Jachet de Berchem sulle stanze dell’Orlando Furioso dell’Ariosto – abbia all’epoca conosciuto le gioie di una rappresentazione scenica. Quando Berchem decide di comporre il suo Capriccio l’opera non è ancora nata e, inoltre, il nostro giura fedeltà alla polifonia, pratica questa giudicata dagli « inventori » dell’opera incompatibile con le esigenze del dramma in musica.
Pertanto la concezione teatrale del Capriccio (1561) è perfettamente evidente. L'autore divide il poema dell'Ariosto in tre "atti" o "libri". Il celebre incipit dell’Orlando Furioso, nel primo libro, serve da prologo. Una stanza sinottica all’inizio del secondo riassume quanto accaduto nell’atto precedente e, al tempo stesso, annuncia quanto avverrà in seguito.
La scelta operata dal compositore nella selva fantastica degli episodi de il Furioso è anch'essa significativa. Berchem , infatti, seleziona e combina le ottave ariostesche in funzione di criteri narrativi teatrali. Organizzate in tre libri concepiti come atti di uno stesso dramma, alcune ottave vengono scelte in virtù del loro carattere lapidario. Come il coro di una tragedia greca allora, il quartetto vocale, rappresentante della collettività degli umani sulla scena, commenta l’azione, ne tira la morale, pone questioni, manifesta simpatia, sdegno, piange e si rallegra per il destino dei suoi paladini.
Le altre stanze scelte dal Berchem, come in ogni opera ben congeniata, presentano il vasto universo delle passioni umane, un universo concepito al plurale che ripropone l’antico dualismo amore/morte o ragione/follia in cui ogni affetto ha bisogno dello specchio del suo contrario per esistere ed essere compreso.
Berchem nel suo Capriccio riunisce gli elementi essenziali di un vasto dramma corale che oggi attende solo di essere rappresentato in una forma compatibile con le convenzioni del teatro cinquecentesco.
Dare all’insieme l’apparenza di un'opera sarebbe stato un grave errore dal punto di vista storico, visto che il recitativo come la fusione continua di musica e dramma sono impensabili nel 1561. Era costume in quegl’anni separare declamazione e canto, alternare sezioni in prosa a intermezzi musicali - mascherate, balletti, madrigali, interludi e monodie - cantati o danzati.
Il Compositore
Jacquet de Berchem (1505 – 1565) è certamente una delle figure più misteriose della storia musicale del XVI secolo. D’origine fiamminga, attraversa le Alpi per riscaldarsi al sole delle nuove idee che animano l’Italia degli umanisti.
Come spesso all’epoca, Jacquet porta il nome della località che lo vide nascere : Berchem-les-Anvers. Probabilmente, come la maggior parte dei suoi colleghi oltremontani, apprende i primi rudimenti della sua arte alla Maîtrise della cattedrale cittadina. Segue la sua formazione a San Marco (Venezia) presso il « divino » Adrian Willaert, il maestro dell’ avant-gard madrigalistica (Cipriano de Rore, Nicola Vicentino, Gabrieli, etc.) che condurrà alla definizione dello stile monteverdiano e all’invetione della seconda prattica.
In una dedica del 1546, Berchem appare come amorevole domestico di Giovanni Bragadino, nobile veneziano. Sempre nel 1546, viene nominato Maestro di Cappella a San Zeno, cattedrale di Verona, posto che, subito dopo il nostro, occuperà Marcantonio Ingegneri, futuro maestro di Monteverdi. La prefazione al suo Primo libro de’ Madrigali a 4 voci, attesta che Berchem è al servizio di Andrea Marzato, gentiluomo napoletano e governatore di Monopoli nel 1555, ma non è stato possibile scoprire, quando Berchem si sia trasferito nella città pugliese. A Monopoli Berchem resterà fino al termine della sua vita terrena nel 1565.
Berchem ha pubblicato
- Il primo libro de' Madrigali a 5 voci, presso Scotto (1546)
- Il Primo libro de’ madrigali a 4 voci di Iacchetto (1555)
- Il Primo, secondo et terzo libro del Capriccio di Iacchetto Berchem con la musica da lui composta sopra le stanze del Furioso nuovamente stampati & dati in luce all'illustrissimo et eccellentisimo Duca di Ferrara (1561 – seconda edizione).
Brenno Boccadoro, Università di Ginevra
L' Orlando Furioso: un viaggio tra letteratura e tradizione
Tra le innumerevoli guerre che Carlomgno ha combattuto e vinto contro Bavari, Frisoni, Slavi, Avari, Bretoni, Longobardi, quelle contro gli Arabi occupano poco posto nella storia; nella letteratura, invece, s'ingigantiscono riempendo le pagine di biblioteche intere. Per rintracciare le origini di questa straordinaria proliferazione mitologica, si suole rifarsi a un episodio storico oscuro e sfortunato: nel 778 Carlomagno tenta una spedizione per espugnare Saragozza, ma è rapidamente costretto alla ritirata. La retroguardia franca viene attaccata e sconfitta presso Roncisvalle. Le cronache riportano tra i nomi dei dignitari uccisi quello di Hruodlandus.
La Chanson de Roland fu scritta, in effetti, soltanto tre secoli dopo la storica disfatta, da un autore sconosciuto di cui appare il nome solo nell' ultimo verso del poema: Turoldo.
Siamo all'epoca della prima crociata e l'Europa è pervasa dallo spirito della Guerra Santa che contrappone mondo cristiano e mondo musulmano. Non sappiamo se Turoldo abbia attinto ad una tradizione già affermata, cioè se la leggenda di Roncisvalle facesse parte del repertorio dei trovieri. Certo è che una lunga tradizione nasce con la Chanson de Roland e immensa sarà la diffusione che le gesta dei paladini di Carlomagno avranno in Francia prima, in Spagna e in Italia in seguito. Roland diventa Roldan oltre i Pirenei e Orlando a sud delle Alpi.
Di Roland la tradizione francese racconta l'ultima battaglia e la morte. Tutto il resto della sua vita ‐ nascita, albero genealogico, infanzia, giovinezza, avventure – lo troverà in Italia. Suo padre è Milone di Chiaromonte, alfiere di Carlo imperatore, e sua madre Berta, sorella del sovrano. Avendo Milone sedotto la fanciulla, per sfuggire alle regali ire, la rapisce e fugge in Italia. Secondo alcune fonti Orlando, frutto del loro amore carnale, nasce a Imola, secondo altre a Sutri. Ma che sia italiano non c'è dubbio.
Se nelle corti europee il mondo delle storie magiche e amorose del ciclo bretone della Tavola Rotonda si sostituisce al più austero ciclo carolingio, in Italia il popolo resta fedele a Orlando, Gano e Rinaldo e sul finire del ‘400 le loro avventure fantastiche tornano di moda nelle due più raffinate corti nostrane, quella dei Medici a Firenze e quella degl’Este a Ferrara.
Il ciclo cavalleresco rinascimentale si inaugura con il Morgante di Luigi Pulci (1432‐1484), opera commissionata dalla madre di Lorenzo il Magnifico. A Ferrara, Matteo Maria Boiardo, conte di Scandiano (1441‐1494) scrive l’ Orlando innamorato, poema incompiuto e antefatto dell' epopea di Ludovico Ariosto. Quest'ultimo intraprende l’Orlando furioso nel 1504. Dopo averlo pubblicato in una prima edizione in quaranta canti nel 1516, Ariosto ne compie un minuzioso lavoro di perfezionamento che appare in una seconda stesura nel 1521 e in una terza nel 1532.
L’Orlando Furioso abbandona rapidamente i profumati salotti degli uomini di lettere, per diffondersi tra le più diverse categorie di pubblico. L’epopea ariostesca finisce così per dare luogo ad una vasta produzione artistica collaterale, dotta come popolare, fornendo i testi per nuovi madrigali, frottole, arie per cantar versi, etc. Montaigne nelle pagine del suo viaggio in Italia, ci assicura di aver udito contadini con un liuto in mano e le rime del Furioso tra le labbra. Un membro dell’Accademia degli Alterati, uno dei laboratori dell’opera nascente, le ascolta in ogni strada o taverna di Firenze, Roma, Napoli, Venezia.
I duelli tra paladini entrano così a far parte del più conservatore dei depositi culturali: il folklore. La loro fortuna perdura nelle invenzioni dei cantastorie napoletani, nel teatro dei pupi, sulle decorazioni dei carretti e nel cunto dei cuntastorie in Sicilia. L’Orlando siciliano si associa a due diverse lingue che corrispondono a due diverse utilizzazioni della voce. I cuntastorie improvvisano in dialetto scandendo il testo come nella poesia antica su ritmi fissi,, incalzanti, spesso in sincope con gli accenti tonici della parola.
Nel teatro dei pupi, invece, il testo recitato è in italiano. Il puparo è tenuto a dar voce a tutti i personaggi presenti nella rappresentazione adattandone l’intonazione al sesso, l’età e la personalità.
Uno dei più toccanti elogi dell’abilità vocale del puparo ce lo regala il viaggiatore inglese Henry Festing Jones (1851–1928).
Siamo a Palermo : Il diciannovesimo secolo sta tramontando.
Una piazza, un teatrino e la magia di una voce :
"Il pubblico beveva avidamente le fulgide gocce che stillavano dalle sue labbra, immobile in un silenzio che fu rotto soltanto da un gran singulto al calare del sipario. Che cosa importava loro di bambole snodate o di palcoscenici in miniatura? Non erano più a teatro! Avevano vagato per i boschi con Marfisa, l'avevano trovata morente nella grotta, ne avevano raccolto l'ultimo respiro, e il mondo per loro non sarebbe stato più lo stesso. Una voce capace di tanto è rara e, come la forza di un gigante, ancora più raro è che si trovi in possesso di uno che la sappia usare degnamente."
Roberto Festa