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LA MUSICA CHE PIACE A DIO

 

Nella teoria musicale che il Rinascimento recupera dall'antichità, il significato della musica non è inteso come un valore psicologico soggettivo, bensì come una proprietà « tangibile Â» e consustanziale agli oggetti musicali stessi. Ogni elemento della grammatica musicale - registro, note, intervalli, modi, etc. - ha un suo ethos, vale a dire carattere e proprietà specifiche che gli permettono di agire, modulare e influenzare la psiche dell'uditore provocando o temperando l’ebbrezza, generando collera o estasi, melanconia o frenesia e condurre al vizio come alla virtù.

Se ritmo, modi e armonia possono manipolare la volontà con l’energia di una sostanza stupefacente, spingere al suicidio - come nell’Odissea - equipaggi di marinai che preferirebbero non morire, curare malattie psichiche e somatiche senza consultare il parere del paziente, l’etica musicale si converte e trasforma in un discorso sull’autonomia della volontà nei confronti dei sensi e la riflessione sulla musica non può non divenire materia di speculazioni e dispute morali.

 

Già Severino Boethius (Roma 475, Pavia 575) sostiene che:

musica vero non modo speculationi, uerum etiam moralitati coniuncta sit

 

La musica è materia della morale perché crea un evidente conflitto tra la ratio e i piaceri del corpo. È arte del vizio quando soggioga la volontà e porta l'anima alla mollezza; materia virtuosa, invece, se armonizza ragione e sensazione.

 

Nel '500, il contesto nel quale trovare una formulazione chiara e delle risposte esplicite a questa problematica non è l'umanesimo laico. Gli interessi degli umanisti si focalizzano sulla ricostruzione di una grammatica degli affetti come alibi per l’emancipazione della musica moderna, e la capacità della musica di provocare emozioni importa più che la sua facoltà di imporre loro un freno. Marsilio Ficino, per esempio, opera una distinzione precisa fra la buona e la cattiva musica, ma il regime musicale elaborato nel De Vita, magico e astrologico, è tutt'altro che intransigente. Cinquant'anni più tardi Zarlino è altrettanto elastico: di fronte all’ipotesi che l'abbandono alle passioni possa rivelarsi riprovevole dal punto di vista morale, liquida rapidamente la questione rifacendosi all'idea della virtù come «giusta media» fra elementi contrari.

 

È nell’ambito strettamente teologico che viene discusso l’aspetto etico circa l’autonomia della volontà rispetto al corpo. Il problema del potere della musica, che, come l’astrologia, turba il libero arbitrio attraverso la sua azione corporea, viene formulato correttamente da Sant’Agostino in un celebre passo delle Confessioni, in cui l’autore riconosce di "peccare a sua insaputa", commosso più dalla melodia che dal verbo.

Se negli ambienti cattolici del '500 tali riserve rimangono tutto sommato lettera morta (anche il Concilio di Trento si limita a condannare l’irruzione della musica profana, teatrale e lasciva nella liturgia, ma incoraggia la dottrina degli affetti per la musica sacra para-liturgica), il dibattito teologico sulla musica che « piace a Dio Â» trova un terreno fertile negli ambienti riformati calvinisti, dove la problematica agostinana sull’etica dell’ascolto rinasce con rinnovata urgenza. È a Ginevra, la città di Calvino, al contempo repubblica di santi e terra promessa in un'Europa dilaniata dalle guerre di religione, che i principi di una morale musicale di stato si traducono in un sistema penale reso efficace dall'esiguità della popolazione e dal controllo delle autorità competenti. Le procedure giudiziarie conservate dai verbali del Consistoire, costituiscono oggi l’espressione più concreta delle idee dei magistrati e dei ministri della fede sul potere efficace della musica.

 

La rigida morale repressiva applicata dalle istanze politiche e religiose svizzere del '500, risponde, da un lato, al retroscena filosofico e teologico dei riformatori sul potere della danza e del canto come strumento di seduzione, e, dall’altro, al grado di tensione nervosa delle autorità durante il periodo di costruzione della nuova chiesa riformata.

De iure, la nuova repubblica degli eroi della fede è concepita ad immagine del corpo di Cristo, unius corporis caput, nel quale gli eletti in unum corpus coalescunt. Ginevra però è un «corpo», che, al contrario del corpo mistico del Cristo, conserva le tracce del peccato originale, una città dove, licenza e corruzione, ne dividono le membra dal capo. Alla Compagnia dei pastori spetta il compito di curarne la teste, ai Signori del Consiglio, les membres. Ma fra anima e corpo, politica e religione, magisterio e magistratura, la correlazione è altrettanto stretta che l’osmosi fra ragione e sensazione, e spetta alla mente governare il corpo, attraverso le leggi suggerite dalla Congregazione dei pastori ai Signori del Consiglio. Saranno, in pratica, i teologi ad imporre le leggi della politica.

 

Fra le cause del male le ordinanze di polizia enumerano in primis la danza e i canti osceni. La terapia è al contempo preventiva e curativa. Nel 1535 le autorità congedano i giovani cantori della Cappella degli Innoncents della cattedrale di Saint Pierre e il loro maestro di cappella, e impongono l'insegnamento regolare dei Salmi per tutti gli allievi del Collegio, dalle undici a mezzogiorno, in inverno come in estate.

 

Nella mente di Calvino l’idea di un conflitto fra salmi e musica profana prende forma già nel 1542, quando oppone

« le canzoni oneste che insegnano l’amore e il timore di Dio, a quelle che si cantano comunemente adultere e villane ».

 

Ma il disegno di abolire la musica profana sostituendola con i salmi di Davide si concretizza solo l’anno seguente:

«Che tutti siano ben avvisati ; che al posto delle canzoni in parte vane e frivole, in parte volgari e pesanti, in parte sporche e volgari, e di conseguenza cattive e nocive che erano in uso prima, ci si abitui da adesso a cantare questi divini e celesti Cantici con il buon Re David Â»

 

Il Psautier de David della nuova chiesa riformata di lingua francese, diviene l'arma simbolica di una guerra di religione musicale combattuta a colpi di contrafacta : canti d’amore, leggeri e frivoli, saranno privati del testo e rivestiti della toga pastorale di un salmo. Così la melodia della canzone di Clément Marot Quand vous voudrez faire une amye diviene il salmo 138 Il faut de tous mes esprits, e nel 1577 è il contrappunto lussuriante di Orlando di Lasso a offrire corpo e sottovesti al Premier livre du meslange des pseaumes et Cantiques a trois parties recueillis de la Musique d’Orlande de Lassus et autres excellens musiciens.

 

Inoltre, coscienti della propria responsabilità pastorale nei confronti della morale pubblica, i ministri della fede intervengono nel sistema legislativo ginevrino. Il memorandum presentato al sinodo di Zurigo nel 1538 formula il disegno di richiedere al governo di seguire l’esempio dei Bernesi nel cancellare dalla città la « sporcizia Â» della danza e della musica lasciva che l’accompagna. L’idea non è nuova, né inedita. Alcune disposizioni legali sancite durante il periodo riformato non fanno che ribadire articoli di legge proclamati negli anni precedenti dalle autorità ecclesiastiche e politiche sabaude. Un editto del 1484 colpisce i mimi e i tamburini ambulanti affinché non « osino invitare la folla alla danza con i loro strumenti Â». Nel 1483 le danze e le pubbliche rappresentazioni dei giocolieri ambulanti figurano in una lista di « immondizie Â» da eliminare dalla città, accanto ad acquitrini, mendicanti, sfaccendati e malati di provenienza straniera.

 

È il valore morale della musica che preoccupa la magistratura ginevrina e l’analisi su ciò che va proibito si fa via via più sottile. Nel settembre 1536, dopo la decisione del Consiglio di « vivere secondo il Vangelo Â», un decreto di legge proclamato da Farel impone che :

« Parimenti si facciano degli editti pubblici affinché nessuno canti canzoni lamentevoli e vane, pena il carcere, per la prima infrazione, e la gogna per la seconda. Che gli infami desistano dalla loro infamia e fornicazione Â».

 

Negli anni seguenti la fraseologia si cristallizza facendosi sempre più precisa, e focalizzandosi con insistenza sulla danza, espressione per eccellenza del linguaggio non verbale del corpo, strumento di « seduzione Â» e di « fornicazione Â». In un primo momento, questa viene tollerata ma unicamente dopo la celebrazione delle nozze: 

« Che nessuno abbia a danzare se non alle nozze, né cantare canzoni licenziose, né travestirsi e fare mascherate né maniere e ciò a pena di soldi 10 di multa e di essere messo in prigione tre giorni a pane ed acqua per ciascuna delle contravvenzioni».

 

Successivamente la danza verrà bandita anche dai matrimoni mediante una serie di decreti senza restrizioni. La legge colpisce tutti i ceti sociali, compresi i più elevati, in cui la danza è diffusa e tollerata:

«Facciamo sapere, in nome dei nostri temuti signori sindaci e consiglieri di questa città, che d’ora in poi nessuno, di qualsivoglia ceto o condizione, sia tanto temerario e ardito da cantare canzoni licenziose, né danzare in nessuna maniera, a pena di essere messo in prigione tre giorni a pane e acqua e di sessanta soldi di multa per volta»

 

Paradossalmente, in questi anni e durante tutto il '600, i documenti più eloquenti sulla storia della musica ginevrina sono gli atti processuali contro di essa, che riempiono i verbali della giustizia. L’attività processuale è il sismografo della tensione nervosa delle autorità ministeriali confrontate col malcontento della cittadinanza.

Prima del 1546 i processi sono più rari e tutto sommato innocui. Il 17 luglio 1542 Denys e François Hugues, vengono arrestati per aver deriso col canto i ministri della fede. La stessa attività canzonatoria conduce in tribunale il cittadino Petra, assistente della giustizia a Vandeouvres, che

« si mise più volte davanti alla casa del pastore cantandogli la canzone dissoluta del servitore e della sua amante Â».

 

Il mese seguente è la volta di François Dupont, colpevole di cantare per la strada durante la notte piuttosto che frequentare i sermoni durante il giorno. Si canta nelle strade, nei locali pubblici e persino in tribunale, come Jana, figlia di Robert Bonivard, che citata in giustizia per canti osceni, interpreta a sua discolpa un inoffensivo canto profano:

« Jana, figlia di Robert Bonivard, e Philibert Biollesian a causa delle canzoni. Rispondono che non cantarono affatto canzoni oscene eccettuato quelle del Vangelo e non sa dire altra canzone che una canzone che dice L’autre jour quand chevauchoie etc. E vanno ai sermoni quando possono Â».

 

Si canta su domanda degli inquirenti che invitano gli indagati a cantare il Notre Père tout puissant per verificare se frequentano i luoghi di divertimento piuttosto che i sermoni.

E naturalmente la cittadinanza continua a cantare; in particolare nelle mescite pubbliche. Contrappunti di canto ed ebbrezza, che preludiano la paillardise - l’adulterio, proibito dalla legge. Con un editto del 28 maggio 1546, quindi, si proibisce la frequentazione delle taverne in favore delle abbayes, locali edificanti, posti, sotto il controllo delle autorità religiose. Gli ospiti assistono alla lettura della Bibbia accompagnata da musiche educative : l’oste non tollererà che vi si cantino altre canzoni all’infuori di «salmi e canzoni spirituali Â», a condizione però che vengano intonati in maniera « conforme » e non « dissoluta o scandalosa Â».

Ebbene sì: anche la maniera di intonare i salmi viene sanzionata dalla magistratura, quando non conforme all’insegnamento di Calvino che impone di cantare con « intelligenza Â» e partecipazione razionale al significato del testo. Il 27 marzo 1546 il Consistoire convoca dame Ballon, colpevole di mormorare in latino  - barbotter - i salmi a bassa voce durante i sermoni. Gli si ricorda che tale pratica tient fort de la papisterie.

 

Ma è la danza la licenza più temuta dai magistrati. Fino ad ora la pena di tre giorni di prigione era stata applicata con relativa moderazione. Le cose cambiano all’inizio dell’anno 1546. Com’è noto, il nuovo regime urta la resistenza di alcuni clans familiari autoctoni, refrattari al rigore del nuovo potere « straniero Â», e alle pubbliche umiliazioni inferte ai patrizi, come Pierre Ameaux, detrattore pubblico di Calvino, che nell’aprile dello stesso anno, viene costretto a sfilare in sottoveste per le strade del centro della città con una torcia in mano, chiedendo perdono a Dio, a Calvino e alla magistratura, e rinnegando à haulte et intelligible voix tutte le tesi sostenute contro il governo durante una cena, la sera del 26 gennaio.

L’infrazione al regolamento contro il ballo e le oscenità canore diviene ancora il segno di reati più gravi, come la sedizione. L’esempio più celebre è il processo intentato a 26 notabili della città, incriminati per delitto di coreografia nella primavera 1546. Il 26 marzo si danza nella dimora privata di Anthoine Lectz a Bellerive per il matrimonio della figlia Mie, sposa di Claude Philippe, figlio di Jean Philippe, sindaco e capitano generale condannato a morte nel 1540. Le coreografie proseguono in seguito in casa di Pernette Sept, madre di Jean-Baptiste Sept. Nei giorni seguenti la magistratura procede all’arresto degli astanti. La lista degli accusati menziona 26 nomi, fra cui Antoine Lectz, padre della sposa, Rolette Buisson, figlia di Jean Buisson ex consigliere, Jeanne Lectz, sposa, Claude Philippe Mya Philippe, Amblard Corne, sindaco, Jeanne Franc, figlia di Amblard, Urbain Quisard, signore di Crantz e castellano di Coppet, Louis Franc, Pernette Franc, Pierre et Claude Moche, il capitano Ami Perrin et Françoise Favre sua moglie, Jean Maillart e Jean Gruet, condannato alla pena capitale l’anno seguente per avere infangato la reputazione di Calvino. Come attesta la deposizione di Guido Mallet, del 15 aprile, gli invitati tramano in silenzio. Dopo la seduta del 1 aprile, Calvino, sdegnato, scrive a Farel e a Viret, avendo le persone convocate negato spudoratamente i fatti. Ma la settimana seguente il sindaco Amblard Comte « canta Â», trascinando in giudizio il resto degli invitati. Il 12 aprile il Consiglio ordina l’imprigionamento di tutti coloro i quali avevano danzato a Bellerive o a Ginevra. Il 20 aprile, compare al processo Jacques Gruet con Pierre Moche, citati per menzogne. Gruet risponde « calunniando Â» Calvino di aver insultato i danzatori definendoli « ruffiani » - sinonimo, nel linguaggio dell’epoca, di debosciati. Calvino risponde precisando che « dalle danze nasce la licenza » - de les danses s’ensuyt ruffianage. Gli vengono fatte le rimostranze per avere fleureté  macchiandosi di « peccato veniale Â». Calvino gli rimprovera che non è il caso di paragonare i ministri a florette et barelle, sinonimo di « gioco, trastullo amoroso Â». La confusione, nella mente di Calvino, fra danza e licenza trova conferma nella destrezza con la quale, nell’accusa, il riformatore trae profitto del significato equivoco del termine fleureter, al contempo passo di danza – fleuret - e correlativo cinquecentesco dell’odierno flirter.

 

Una misura efficace per eliminare le danze è quella di mettere a tacere i musicisti che le accompagnano. Il ballo di Bellerive viene condotto dal musicista Ansermo Roph, detto Tabusset, tamburino. Il verbale del 19 aprile enumera le sue specialità nelle arti dello spettacolo :

 

Il 6 maggio 1555, la pena di tre giorni a pane ed acqua viene applicata a Jehan Demeribel, ritenuto colpevole di avere mescolato canti spirituali a canzoni dissolues et mondaines ai bagni di Ayx [Aix-les-bains], seguendo poi una donna dai facili costumi - garse - a Chambéry. L’ipotesi di una mescolanza di salmi e canzoni profane è tutt’altro che esclusa. Numerosi canti spirituali avevano un passato tutt’altro che edificante e il ritorno alla loro versione iniziale è facilmente immaginabile.

 

Agli amanti della musica « leggera Â» non rimane altro teatro che l’aria aperta dei campi, oltre le porte della città, dove echeggia la melopea bucolica dei lavoratori agricoli in contrappunto con qualche rustica imprecazione. Ma le autorità non tardano ad intervenire con un'ordinanza di polizia che proibisce il canto ai mietitori :

 

Fra la fine dell’anno 1542 e la primavera dell’anno seguente il flagello della peste colpisce duramente Ginevra. I magistrati ordinano che un ministro della fede venga mandato all’ospedale dei pestilenti pour solager et console les povres infect de peste. Ma il terrore del contagio paralizza persino gli uomini di Dio. Ne segue una tragica caccia all’untore che vede l’esecuzione di 37 persone in soli quattro mesi. Da un lato la licenza, dall’altro le verghe di Dio. Il reo è un nemico potenziale per la comunità e la danza un affare di stato. Lo afferma esplicitamente l’Ordinanza di polizia del 5 dicembre 1617 :

 Â« Al che avendo voluto porre rimedio, sia per il dovere delle loro coscienze che per il bene generale dello stato in generale e delle famiglie in particolare, i suddetti signori hanno fatto pubblicare le suddette ordinanze e regolamenti e in particolare quelle che riguardano gli abiti, le nozze, i banchetti, le partorienti, le danze, i giochi, le bestemmie e altre simili cose. Ma il torrente della vanità e della licenza è straripato con tanto impeto che nessun limite è stato in grado di arginarlo, e data l’impotenza degli uomini, sembra che Dio stesso abbia voluto porvi mano immediatamente attraverso l’invio dei suoi flagelli, la causa dei quali, occorre confessarlo, va attribuita ai vizi e alle profanità che ciononostante non hanno cessato di regnare tra di noi e che avranno come conseguenza le più grandi verghe e castighi di Dio, se non li preveniamo attraverso un’ammenda interna nei nostri cuori e, esteriormente, nei nostri costumi e conversazioni. [...] E siccome la maggior parte della cittadinanza non si astiene dal male se non attraverso il timore delle leggi e delle loro pene, i suddetti signori hanno risoluto di ridurre in pratica, esattamente e senza eccezione alcuna, la modestia e l’onestà che vengono ingiunte dalle lodevoli ordinanze di questa città Â».

 

 

 

 

Nella riunione del Concistorio del

« Venerdì 22 agosto 1544. Calvino denuncia coloro che cantano canzoni disoneste. Ha ordinato che si facciano ordinanze per vietare canti disonesti e altre bassezze nella città Â».

 

Il punto di partenza dell’etica musicale di Calvino è il valore psicotropo del canto, la sua virtù « secrette et incroyable Â» in grado di volgere gli affetti « en une sorte ou en l’autre Â». Il piacere musicale ha origini divine e tutto porta a concludere che è un dono previsto da Dio per allietare gli uomini :

«Ora tra tutte le cose, concepite per dar sollievo all’uomo e dar lui voluttà, la musica se non la prima è tra le principali e dobbiamo stimare che sia un dono di Dio concepito a questo uso».

 

Ma, come l’anima umana il potere magico della musica è un’energia sospesa tra cielo e terra: può appartenere a Dio come a Satana, e le sue virtù efficaci possono elevare i cuori come inondarli «di un veleno mortale e satanico Â». In ultima analisi la prova più eloquente circa l’onnipotenza del canto e la relativa sfiducia nei confronti del discernimento individuale sono le norme legislative fatte inserire dai ministri della fede nella legislazione ginevrina del ‘500 : vista la fondamentale debolezza dell’ascoltatore, incline a «cercare il piacere in vanità Â», spetta al legislatore immaginare una profilassi musicale di stato per stabilire la musica da consentire o da proscrivere.

 

Nella storia del pensiero occidentale i vari tentativi di determinare il significato della musica hanno avuto come corollario una riflessione sui rapporti fra la virtù intellettiva e le facoltà inferiori dell’anima, portavoci del corpo nel concerto dei sensi interni. Per i teorici, la musica penetra le porte dell’anima e, mancando una facoltà in grado di discernere le sensazioni, modifica il pensiero come più le aggrada comunicandogli la propria forma.

Un’ accattivante metafora compara l’anima a un « alambicco Â» munito di tre filtri, distribuiti su tre piani : l’intelletto (mens), la ragione (ratio) e la fantasia o immaginazione (phantasia, imaginatio). Ogni filtro sepera a modo suo le immagini degli oggetti sensibili dalle scorie della materia. Attraverso i « canali Â» del sistema nervoso, i cinque sensi « distillano Â» le « intenzioni Â» degli oggetti sensibili per raccoglierli poi nel « senso comune come in una cisterna che riceve da un lato e dall’altro Â». L’immaginazione separa le immagini dai loro veicoli sensibili; la ragione ne pesa e ne discute gli argomenti; l’intelletto ne estrae gli universali. La libertà del giudizio individuale è direttamente proporzionale all’intelligenza delle facoltà, che varia in funzione della distanza che le separa dal corpo. Tra le facoltà umane, le più « miopi Â» sono i sensi e l’immaginazione.

 

Se l’intelletto « contempla il tutto Â», immutabile e la ragione grazie alla sua « virtù discorsiva, coi suoi discorsi giudica il tutto Â», l’immaginazione dopo aver isolato gli oggetti sensibili, li combina, li manipola. « Proteo e Camaleonte Â» (Ficino), l’immaginazione può deformarli e combinarli in visioni arcimboldesche. Dipinge, immagina soavi contrappunti ed eccelle nelle arti sceniche, il teatro come la danza, ma il suo pensiero non è « discorsivo Â» ; la sua logica è fantastica e i suoi concetti non verbali. Le sue idee sono solo forme e non è in grado di pensare altro che immagini. Domandiamogli di dar forma all’immagine di Dio e l’immaginazione forgerà un idolo corporeo e bugiardo anche se riccamente colorato. Se l’uomo si riducesse alla sola immaginazione, si esprimerebbe come gli animali con gesti e suoni incomprensibili. Debole dialetticamente, l’immaginazione non è in misura di giudicare ciò che intende ; approva senza riserve ogni modo, buono o falso. È una cortigiana facile da sedurre. Ed è lei che seduce qundo il musicista gli dà vita con una melodia.

Nel moralista, danza e musica, di conseguenza, non possono generare altro che diffidenza. La volontà che si abbandona ciecamente al « giudizio Â» della fantasia perde la sua libertà per divenire schiava del corpo e dei sensi. Per salvare la virtù, la scolastica immagina un’istanza superiore - ratio, intellectus - che monda il libero arbitro del fango del corpo. Questa facoltà, alla quale l’uomo deve la propria libertà, oscilla tra « la sommità e l’ipotenusa dell’anima Â».

 

Alla gerarchia delle facoltà corrisponde un’analoga gerarchia nel linguaggio sonoro. Il testo parla allora alla ragione, mentre il suono si esprime non verbalmente come il corpo. Dal momento che la ragione è superiore al corpo, il testo è più intelligente del suo veicolo sonoro, e la « musica poetica Â» « dice Â» più e meglio di quella strumentale. Inoltre, il testo deve moderare e temperare la potenza della melodia, esattamente come nell’anima la « virtù intellettiva Â» misura l’affetto, l’emozione. In questa logica, la musica non può essere che « ancella e serva della parola Â» e la danza, come le esecuzioni strumentali che l’accompagnano, non possono meritare che disprezzo.

La sola riserva di Calvino nei confronti della teorie antiche sull’anima, è che per i savi dell'antichità « volonté Â» e « concupiscence Â» comunicano con « intellect Â» et « raison Â». Ma – ci dice il riformatore - i filosofi non hanno conosciuto il peccato originale. Prima

« Tutte le parti dell’anima erano ben regolate e ordinate, l’intendimento era sano ed integro, la volontà era libera nella ricerca del bene [...] Adamo era perfettamente retto nell’intelligenza e nella volontà ; ma col peccato ha corrotto ogni suo bene. Coloro che fan professione d’esser cristiani, ma navigano tra due mari e confondono la verità di Dio e le tesi dei filosofi affannandosi alla ricerca del libero arbitrio nell’uomo, sono perduti, abbrutiti dalla morte spirituale e del tutto insensati Â».

 

La loro anima è Â« una caverna di immondezza e puzza Â», in preda alla discodanza di tutte le sue parti e la loro volontà finirà ineluttabilmente per cadere scivolando sul terreno fangoso della carne.

« Tutte le parti della nostra anima sono corrotte dalla perversità della nostra natura e in ogni nostra opera appare il nostro disordine e la nostra intemperanza ; ogni desiderio che concepiamo non può separarsi dall’eccesso ed è per questo che diciamo essere viziosi Â».

 

Mancando un limite, ci si « ubriaca Â» di piacere.

« L’oro e la ricchezza sono buone creature di Dio [...] e in nessun luogo è vietato ridere o ristorarsi [...] dilettarsi con gli strumenti musicali o bevendo vino. Ciò è vero; ma quando qualcuno vive nell’abbondanza e si abbandona al piacere delle delizie, ubriaca la propria anima e il cuore con i desideri del presente prima, e ne cercherà poi sempre nuovi, allontanandosi sempre più dall’uso santo e legittimo dei doni di Dio Â»

 

Qui è l’etica indiviaduale che viene messa in causa e non l’organizzazione dei suoni nella melodia. Allo stesso tempo, però, il vocabolario di Calvino riconosce alla musica delle virtù «innate». Quando è buona, deve avere « gravità, peso e maestà, moderazione Â», argomenti, questi, troppo vaghi per accusare qualcuno in ragione della tonalità del suo canto. Allora ci si attacca al testo e la musica sarà buona o cattiva in ragione di ciò che dice.

 

« Se una ragazza si abitua a cantare di amori folli, si trasformerà in un’adultera ancor prima di sapere cosa sia l’adulterio Â»

 

Ma, considerando che la tradizione antica accorda un valore morale e un significato anche alla sola armonia, che dire delle melodie che accompagnano il testo ?

Calvino non ha dubbi :

« C’è di più : poiché con gran difficoltà troveremo in questo mondo una cosa che più della musica possa stravolgere e piegare (fléchir) qua e là i costumi degli uomini, come sostiene prudentemente Platone. E di fatto, noi sperimentiamo ch’ella ha una virtù segreta & quasi incredibile a commuovere i cuori in un modo o nell’altro Â».

 

Il verbo « fléchir Â» figura nel De Oratore di Cicerone a proposito della virtù « flexanima Â» dell’eloquenza, che piega la ragione dell’uditore. « Vertu secrette Â» è una traduzione dei termini virtus harmonica, cari alla scolastica, che definiscono le virtù efficaci dei suoni, propri a ritmi ed intervalli, capaci di alterare le nostre passioni. Per Calvino, come l’anima, il Salmo è il teatro di un conflitto tra potenze contrarie :

« Parlando adesso di Musica capisco che questa comprende due parti, e cioè il testo, o soggetto, o materia. Secondariamente il canto, o melodia Â».

 

La musica sacra deve armonizzare queste due componenti, subordinando il piacere della melodia al significato della parola. Altrimenti, come indica Sant Agostino nelle Confessioni (X, 33), l’anima pecca :

« I piaceri dell’udito mi avevano preso e soggiogato tenacemente, ma Voi mi avete slegato e liberato. Mi piacciono ancora, confesso, i canti che animano la Vostra Parola […] ma non mi lascio più accalappiare dai loro lacci e conservo la libertà di alzarmi quando lo desidero […]. A volte credo accordar loro più onori di quanti ne meritino. Mi accorgo che queste parole sante, accompagnate dal canto, mi infiammano di una pietà più religiosa e più ardente che se fossero state senza accompagnamento. È perché tutte le emozioni della nostra anima hanno conformemente al loro diverso carattere, un loro modo proprio d’esprimersi nella voce e nel canto, che non so per quale misteriosa affinità le stimola. Ma il piacere dei sensi, ragione per la quale non bisogna lasciar innervosire l’anima, mi inganna spesso : la sensazione non riesce ad accompagnarsi alla ragione seguendola con modestia, ma tiene ad essere accettata dalla ragione a pieno titolo, cercando di precederla e condurla. È in questo che pecco a mia insaputa. Ne prendo coscienza d’un tratto e vorrei, in questi frangenti, ad ogni costo allontanare dalle mie orecchie, e da quelle della stessa Chiesa, la melodia di queste soavi cantilene che servono abitualmente ad accompagnare i Salmi di David. Credo allora che quanto Athanasio, vescovo di Alessandria, fece sia pratico e sicuro. Ho infatti spesso sentito dire, che li faceva recitare con sì piccole modulazioni di voce che assomigliavano più alla declamazione che al canto […] Così sono diviso tra il pericolo del piacere e la costatazione dei buon effetti che la melodia opera ; e, pur restando il mio avviso irrevocabile, tendo ad approvare il costume del canto nella chiesa, affinché, grazie all’incanto del suono, l’anima troppo debole possa elevarsi alla pietà. Ma quando mi succede di essere più sensibile al canto che alla parola cantata,  riconosco che il mio peccato meriti penitenza, e allora avrei preferito mai aver udito quei canti Â». (Sant Agostino)

 

Buon interprete, Calvino associa la categoria « orecchie Â» a « armonia Â» e « spirito Â» a « senso spirituale delle parole»:

« Bisogna sempre stare in guardia e che le orecchie non siano più attente all’armonia che al canto, che lo spirito al senso spirituale della parola Â»

 

Il testo risponde all’intelletto e la melodia alle facoltà inferiori, quelle che l’uomo ha in comune con gli animali. La musica pura, la musica strumentale, come il canto degli uccelli, rappresenta la dimensione « animale Â» della musica :

« In questo sta la differenza tra il canto umano e quello degli uccelli : l’usignolo, il pappagallo possono cantar bene, ma non possono capire. Mentre è proprio all’uomo cantare sapendo cosa dice» (Sant Agostino)

 

Il testo parla all’intelligenza, mentre la melodia rappresenta la forza irrazionale del canto, la sua componente patetica, e i suoi effetti sono identici a quelli dell’ebbrezza indotta dall’alcool :

« Come dice San Paolo, tutte le cattive parole pervertono i buoni costumi : ma quando sono accompagnate dalla melodia, queste penetrano più profondamente nel cuore, e ne entrano al suo interno : come il vino penetra nell’anfora grazie all’imbuto, così la melodia distilla il veleno e la corruzione e ne avvelena il cuore Â»

 

La corruzione della natura umana e l’abbandono al piacere della melodia costituiscono un « disordine colpevole Â», hanno come unico rimedio la grazia santificante del testo rivelato dei salmi, che dovranno utilizzarsi come « moderatori Â» atti a temperare le potenze emotive della melodia che inebria il fedele, esattamente come per evitare gli effetti alteranti del vino lo si mescola all’acqua.

« Quando si fa uso di moderazione, non c’è dubbio che si faccia cosa santa e utile ; al contrario, i canti e le melodie composti per il solo piacere dell’udito (aureilles), come quelli tutti fronzoli e bagattelle del Papato (Papisterie), e tutto quello che chiamano musica rotta (rompue), quella composta a quattro parti, non conviene in niente ad esprimere la maestà della Chiesa e non può che grandemente dispiacere a Dio Â».

 

La polifonia « dispiace profondamente a Dio Â» perché opera una diffrazione dell’idea espressa nel testo sacro : declina la sua fondamentale unità in quattro interpretazioni contradditotorie. Riveste il senso del testo mediante una fitta trama di melodie dal significato « fantastico Â», intraducibile verbalemente. Si tratta dell’argomento classico, desunto da un passo delle leggi platoniche contro la polifonia, che negli stessi anni seduce anche i cardinali del Concilio di Trento, che minacciano di ridurre la liturgia cattolica al semplice canto gregoriano.

È molto probabile, però, che nell’estetica di Calvino la condanna della polifonia rappresenti qualcosa di più che un semplice problema di percezione. L’idea di una frattura dell’universalità nel movimento indeterminato degli elementi musicali, rappresenta lo specchio della discordia segnata dal peccato originale fra anima e corpo.  All’inizio dei tempi, prima che il peccato seminasse la discordia fra l’uomo e il creatore, l’anima umana aveva ordine, misura pefetta e movimenti organici regolati da misure perfette. Ragione e sensazione operavano all’unisono e l’ordine divino si estendeva alle facoltà inferiori della composizione umana, compreso il corpo. Adamo aveva i sensi « ben temperati Â» :

 

«  Adamo […] gioiva di rettutudine, le sue emozioni erano ben regolate, i suoi sensi ben temperati e tutto ben ordinato in sé da rappresentare grazie ai suddetti ornamenti la gloria del suo creatore. E finché l’immagine di Dio ha dimorato nel suo spirito e nel suo cuore […] non vi era alcuna sua parte, finanche il suo corpo stesso, nella quale non brillasse una scintilla luminosa Â»

 

Intelligenza e volontà avevano «une parfaite droicture Â» e le parti organiche erano naturalmente inclini ad « obbedire Â» e conspirare nel bene, sino al momento in cui il peccato venne a pervertirne l’ordine corrompendo la virtù intellettiva e la volontà.

Il male della musica è allora il divorzio fra « cuore Â» e « intelligenza Â» ; fra la melodia e il Verbo rivelato. Resta la luce « interiore Â» dello spirito che Dio ha isolato nell’anima umana attraverso le Sacre Scritture, occhiali prescritti agli uomini « per decifrare le cose celesti Â» e come rimedio per la  loro fondamentale miopia. 

 

 

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