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STORIE DI TRENI E DI MARE

La mia vita di musicista comincia con un tradimento. Tradii tutti, padre, madre, fratelli, studi, i pochi amici e ottocento settimane di residenza, tante quante ne servono a fare più o meno sedici anni. Nessuna ragazza si soffiava il naso sul marciapiede del binario, solo quella nessuna, non tradii. Traditore di vita apparecchiata, una vita che andava solo svolta, me ne andai senza una lettera, senza un mestiere. Con un indirizzo nuovo in tasca e una valigia, partii verso una città mai vista solo, zitto e imbottito di mai più. "Ovunque tranne qui" - mi dicevo. Partendo per Bologna chiudevo la porta di un possibile avvenire nella Toscana dove ero cresciuto.

 

Le città bandiscono gli assenti. Chi non le abita viene iscritto nel registro segreto degli espulsi. Mi ricongiungevo al destino dei miei genitori. "Papà - affermavo - non siamo più napoletani, napoletano è un titolo solo per i residenti, non basta la nascita. Conta chi resta, ogni altro è forestiero." "A patria è chella che te dà a magnà" incalzava mia madre e babbo per scherzare le rispondeva "Allora 'a patria mia si' tu!"

 

Dalla grondaia che bordava il tetto di casa scivolavano giù gocce di cielo, come grani scintillanti di un pallottoliere. "Addio!" dissi, guardando i miei paesaggi sotto quella pioggia sottile "Addio!"

 

La mia testa era piena di armadi stipati di segrete delizie e la vita scorreva come un punto interrogativo che non trova una parola dopo cui arrestarsi. I capelli ingarbugliati come pensieri, gli occhi aperti come finestre e nella mente pappagalli urlanti che esplodevano nel cielo come verdi fuochi d'artificio. Avevo una vita da mordere come un frutto sugoso. Morsi.

 

A quel tempo avevo sedici anni e mi sentivo i polmoni bruciare. L'aria della fuga scottava negli alveoli. La libertà rubata deve essere feroce, altrimenti non regge al rimorso del dolore di chi resta. Quando sogni di volare non porti peso, non devi tenerti sollevato. Ma se metti le ali per davvero, allora serve violenza per staccarti da terra, un salto che come un coltello ti strappi dal suolo con un taglio.

 

Cantavo.

There's no time to lose

I heard her say

Cash your dreams before

They slip away

Dying all the time

Lose your dreams and you

Will lose your mind. (1)

 

Avevo ottocento settimane e tradii. Più tardi avrei tradito l'Italia, una lingua, il mare.

 

Al mare, l'estate che seguì la mia partenza, fu luminosa come una cometa. Preparavo un esame di greco. Alle sette del mattino incontravo il mio professore in una profusione di limoni, di profumi, abbagliato dal riflesso del sole sulle foglie lucide degli agrumi. Mi parlava in greco camminando, solo in greco. Non esistono le lingue morte, capii allora.

 

Ci andavo a piedi in quel giardino, accompagnato dal sorgere del sole. L'alba carezzava con le sue dita rosa i tronchi degli olivi. Limoni e arance decoravano le piante come palle di natale. Studiavo il silenzio e la lingua segreta degli insetti, mi univo al coro delle cicale. Osservavo l'ammiccare scettico della lucertola mentre libellule ingioiellate si libravano in volo come voci acute di bambini e file di formiche si recavano al lavoro. Le farfalle veleggiavano nell'aria come allegri messaggeri. Felice.

 

Era l'anno 1977, l'anno dell'amore, del primo. L'amore è una porta che hai dimenticato di aprire nel corridoio della tua vita. Una persona l'apre e si apre con lei un nuovo esistere e per la prima volta ti pare di esserci. Non è l'amore che esige tutto il nostro coraggio bensì i suoi guardiani: il panico di riconoscerlo, il terrore di dichiararlo, la paura di essere respinti.

 

Non ricordo una sola parola di quell'amore. Non ricordo il primo bacio o come ci siamo conosciuti. È strano come a volte il ricordo del dolore di una fine sopravviva molto più a lungo del ricordo della vita che essa ha rubato. Il mio corpo di quell'amore, però, ha registrato le emozioni, le scosse elettriche che correvano sotto la pelle. Ricordo i suoi seni puntati sul mio cuore e la gioia degli abbracci. E la luce di quegl'occhi. Luccichio, una parola dagl'orli arricciati e festosi.

 

La notte ci guardava appoggiata coi gomiti sull'acqua, e stelle cadenti passavano per un rapido saluto. La luna danzava sulle onde come un tesoro di pirati scintillante riemerso dagli abissi. Per tetto il mercato illuminato delle stelle. Una via salmastra più che lattea riflessa nelle pupille.

 

Ricordo poi le mani. Il tocco leggero delle dita lasciava una traccia di pelledoca sulla pelle. Come un gesso morbido sulla lavagna. Come la brezza sull'acqua. Come la scia dei jet nel cielo celeste. Le sue dita erano lucciole nel buio, dove toccavano illuminavano. Mani che afferravano e parevano inniettarti un plasma dolce, così piene del vigore del calore. Sembrava nascondessero due arti immateriali supplementarari che emettevano vibrazioni profonde. Le prime sfioravano la pelle, le seconde si dedicavano all'oscura regione dei disegni biologici. Erano alimento, rinnovamento, aprivano in me un nuovo accesso. Ci sono mani che assomigliano a un risveglio e il giorno pare danzare e il profumo dei fiori la fibra con cui è tessuto il mondo. Sono mani che ci tolgono il guscio e che ci permettono di percepire l'esterno come il contenuto di noi stessi. E allora la terra pare abitata solo da una grande calma.

 

L'estate finì. A Bologna era rivolta, subbuglio. Il limone serviva a noi studenti per difendersi dai gas dei candelotti lacrimogeni. Ogni volta che me lo sfregavo sugl'occhi, pensavo a quel giardino giallo giù in Costiera. Gialla fu anche la corrente che mi riportò a Napoli due mesi dopo. Mi bastò vederla per capire. Si resta zitti, allora. Poche parole mandate allo sbaraglio nel campo dei centimetri che le nostre mani non riuscivano più ad più attraversare. Vaghi reclami, goffi. Una coppia di attori, Vuoto e Silenzio, intrappolati in un'astrusa rappresentazione, senza traccia di trama o di storia incespicavano nella parte incapaci di cambiare recita.

 

Una volta arrivato, Silenzio mise radici tra noi, ci avvolse tra le sue braccia melmose. Allungò le ventose dei suoi tentacoli furtivi, spogliando i pensieri delle parole necessarie a descriverli, lasciandoli nudi e spellati. Indicibili, intorpiditi. Ripulì come un aspirapolvere le vallate e le colline della memoria, sloggiando vecchie frasi, scuotendole via dalla punta della lingua. Mi ha lasciato solo il ricordo delle lacrime: due linee parallele sulle guance che facevano il verso ai binari della funicolare che ci portava verso il Vomero.

 

Finì il tempo dei limoni.

A Napoli, pensavo, si cresce in fretta, la terra nera del vulcano dà all'albero direttamente il frutto, senza passare dal fiore. A sedici anni sono stato messo tra gli uomini, ho perduto l'odore di bambino. "Le femmine napoletane sono uno sballo - diceva un amico tingendo lo sballo del mio accento da bolognese - ma... se tengon' 'a cazzimma, so' cazz' !!!" Scattava dall'italiano al napoletano con la forza di uno schiaffo; più corto è il napoletano più piglia spunto dal rasoio. Ora che è vita andata, so che non esiste il traditore, il tradito, il giusto, l'empio. Esiste l'amore finché dura.

 

L'ho aspettata fino a dimenticarmi cosa. Mi è rimasta un'attesa nei risvegli. Più volte nella vita mi son visto trasformare. Mutare non prevede marce indietro. Oggi sei così e domani.... altro. Certo non è tutta farina del mio sacco; ogni stadio di una vita, ogni tappa porta il nome di una persona. È come navigare. Hai bisogno di stelle per giungere alla meta e oggi so che ogni cosa è illuminata dalla luce di quelle persone che, come stelle, mi hanno guidato verso il presente. Con loro ho diviso qualcosa per cui vale la pena esistere.

 

A me restavano i bagagli e un treno per Bologna che mi riaccolse a braccia aperte. Sulla via del ritorno, composi la mia prima canzone che, come il primo amore, non si scorda mai.

 

Ed ora che giunge il tempo degli addii,

di un lungo tempo senza nome,

inizio o fine,

come una preghiera, canto

e nel fondo di me custodisco la luce

che riscalda il mio cuore.

È una luce vergine e bianca,

come l’abito di una vestale

e della purezza ha il suono.

 

Nel giardino segreto del tempio,

intono il mio canto

guardo la luna e le abbaio i miei versi.

«Non ci sono risposte, non c’è un tempo »,

mi dice la luna « impara ad aspettare ».

Io so che ha ragione e le sorrido grato.

Sul fondo della valigia allora,

ripongo il mio amore, come un abito caro o

un dolce fardello, e parto felice.

 

A Bologna, Giorgio mi insegnava a suonare. Avrebbe potuto insegnarmi anche a scrivere la musica, ma ero troppo giovane. Scrivere è per chi ha ricordi e una bella storia da raccontare. La mia era tutta davanti, non c'era ancora un dietro. C'erano però i gemelli Grazzi, Alfredo Bernardini, Fabio Biondi, Enrico Gatti e molti altri, tutti pianeti della costellazione Giorgio. Ancora oggi quando li ascolto sento il racconto di quel tempo. Siamo vita nata dal fango bolognese che lui modellò con sapienza e generosità.

 

Bologna vibrava di idee ed entusiasmo, sembrava sempre primavera. Recitavo i versi di un libro:

 

i poeti non sono seminati da alcuno

li porta il vento della primavera.

 

Dario Fo ci insegnava a comporre testi fatti di suono, mai di parole. Lo chiamava gramelot. Era bello sentire la voce comporre quei canti senza musica. Tra le pagine di uno storico greco, scovai un episodio. Ciro il Grande chiama a raccolta i notabili di terre appena conquistate. Chiede un interprete, ma il suo consigliere gli dice: "Usa il tono giusto e per farti capire non avrai bisogno di un traduttore". Lo dissi a Dario. Accese la televisione e inserì una video cassetta. Era Il grande dittatore di Chaplin. "Forse Chaplin conosceva il tuo storico" - ci disse mostrandoci la scena del discorso del fürer. "Il segreto è nel tono. Col tono giusto si può dir tutto senza dire niente." Io, i segreti del tono li capii più tardi, facendo  musica. Per chi fa il Rinascimento, il tono è molto di più di una scala musicale, di una successione di note. È come una casa piena di una vita sua, di una sua esperienza. Se non lo capisci hai sbagliato indirizzo.

 

Carmelo Bene recitava l'Inferno di Dante dalla Garisenda. Seduti per terra migliaia di giovani ascoltavano rapiti. La sua voce era un tuono, si scolpiva nell'anima come un'Apocalisse. La sera suonavo il trombone nella banda che accompagnava un mago nel suo spettacolo. "Camping! - urlava entrando in scena - La vita è un passaggio!!!"

 

È triste che di quegl'anni la Storia ricordi solo drammi, scontri, violenze, ferite. Scrissi nel mio diario:

 

Roteano i manganelli. Fate in uniforme brandiscono bacchette letali. I tirapiedi della Storia sono inviati a far quadrare i conti e a riscuotere il dovuto da coloro che trasgrediscono le Sue leggi. Hanno la paura negli occhi. La paura della civiltà di fronte alla natura, dell'uomo di fronte alla donna, del potere di fronte all'impotenza. Posseduti dall'impulso subliminale che ha l'uomo di distruggere tutto ciò che non può sottomettere né divinizzare. Giovani armati di sole idee malmenati e battuti, sono testimoni dell'aspirazione umana al predominio. Alla struttura. All'ordine. Un'epoca sta lasciando la sua impronta su coloro che la vivono. In diretta.

 

Io ricordo libertà, un'energia che non ho più vissuto, che ha unito migliaia di persone e le ha legate a vita. Ricordo fantasia e un sacco di felicità. Un piano issato sul rimorchio di un furgone attraversava la battaglia con su scritto "Non sparate sul pianista". La banda del movimento che suonava Lester Bowie nel trambusto. Mentre i Tuxedomoon inventavano la no wave, gli Skiantos proclamavano la morte del rock.

 

Poco sensibile alle ideologie, mentre fuori infuriava la battaglia, al mattino andavo in biblioteca attirato dall'odore della polvere che i manoscritti antichi regalano alle dita che li sfogliano. Il passato non muore, resuscita dai libri ogni volta che li si apre. Le buone idee durano più degli uomini che le hanno avute, non si lasciano ibernare dal silenzio del tempo. Avevo appena terminato il conservatorio: avevo un flauto, ma non la musica. Cercar musica non è roba di biblioteca: io volevo una canzone che cantasse la mia vita, una canzone da consumare con lei.

 

Quando il movimento evaporò, Bologna l'avevo spremuta tutta e cominciò il tempo dei viaggi. Non avevo più pensato al verbo tradire. Tornò con i vent'anni. D'ora in poi il tempo non l'avrei più contato in settimane, ma in città e distanze.

 

E fu così che tradii l'Italia, una lingua, il mare.

L'Italia mi chiamava alle armi. Il grigio antracite della canna di un fucile era un colore "non previsto" nel giardino delle delizie dei miei ideali. Il sostantivo fuga mi rimbalzava in testa, un ping pong tra il desiderio di restare e la paura di spiccare il balzo. La paura è una zavorra, incolla al suolo. Era venuto tutto in fretta: l'autonomia, gli amori, gli addii. A risfogliarlo, il libro della mia vita assomigliava ad una corsa, ad un balzo in avanti, alla vertigine del vuoto. Il corpo correva la sua gara, la mente stentando lo seguiva. Vedevo la distanza tra corpo e mente, ero un separato in casa.

 

il tempo mi scivolava  addosso, gocce d'acqua traslucide sulla pelle della vita, una doccia di secondi, di attimi, di istanti. Il tempo è una macchina che va, un metronomo che marca un ritmo ora sobrio, ora incalzante. Mi fa pensare al mare che anche lui va con un ritmo suo e ha una sua saggezza, che sa prendere e dare, che ha i suoi umori, le sue gioie, i suoi dispiaceri. Nessuno conosce le sue burrasche o la bonaccia. Ha un che d'umano e di imperfetto che ci aiuta ad amarlo, ce lo rende amico e strappa preghiere ai marinai.

 

I treni divennero la mia patria. Di geografiche non ne ho più trovate. Ho vissuto Austria, Svizzera, Francia: terre di cui non ho mai scalfito il suolo. Il piede, impacciato, non le sente sue. Il mio è un transito in terre altrui. Vivo con i piedi appoggiati sulle nuvole.

 

A quei tempi i treni sferragliavano contro i binari. Il viaggio aveva una sua pulsazione cardiaca, era come avere il cuore della terra sotto il culo. Aprivo i finestrini per un primo contatto con l'aria del nuovo, per sentire nelle soste odore di luoghi sconosciuti, anonimi e improbabili.

 

Lo spazio ristretto di uno scompartimento invitava al racconto. C'era intimità e i viaggi erano lunghi; si divideva un panino, un bicchiere di vino. "Vulite favurì?" era la prima battuta del copione di ogni incontro, era il sipario che si alzava. "Sssshhh! cominciano le confidenze" - mi dicevo. Ho visto pregare, corteggiare, fuggire. Il treno era meglio del teatro. Ogni scompartimento una commedia.

 

In treno imparavo a leggere. È lì che nacque la malattia, la mia sete di vite altrui. Sui binari galleggia un oceano di storie. Se fai silenzio dentro di te le puoi ascoltare. Venivano dal sud quei treni. I loro nomi, "Trinacria", "Freccia del sud", erano leggende. Mi sentivo su isole abitate da racconti di mare. Crescevo dentro quelle rumorose casse metalliche e mi facevo un passato al ritmo zoppo del binario.

 

Il mondo scorreva saltellando. Le stazioni pause per riprender fiato. Fermo, aprivo il finestrino. Il paesaggio faceva posto ad un'umanità fatta di corpi dalla pelle grigia, esangue, derubata del suo luminoso splendore da tremule luci al neon. Erano figurine ritagliate nella carta, un vuoto tra le righe della pagina del libro abbandonato e quella successiva che attendeva.

 

A sera, le luci di sala di quel teatro sferragliante cedevano il posto alla notte, si spegnevano per accoglierla. Il verde-giorno colava via dagli alberi e il mondo si copriva del catrame liquido della notte. Il click di un interruttore l'annunciava. Nello scompartimento allora, una lampadina fioca spargeva il suo bagliore blu sul respiro più lento dei dormienti. Quel blu mi ricordava i lumi di bagni pubblici, le toilette di bar e ristoranti per evitare ai tossici il veleno nelle vene. Eroina, epatite: nomi comuni della grammatica della morte in quegl'anni.

 

Overdose è una parola che esprime male la realtà. Rimanda ad una morte per abbondanza che per un attimo ci svia dalla solitudine di chi la muore. Ho stretto le mani di amici e di compagni. Prima, le loro dita si irrigidivano contro le mie. Poi, col veleno nel sangue, le abbandonavano. Ogni buco era un gradino verso il buio dell'abisso. Torbida serenità. Quei giovani suicidi non ho potuto mai giudicarli. Erano facchini anche del mio dolore. Si sono curvati sotto un peso invisibile, hanno taciuto per disperazione, per risparmiare forze, poi sono caduti.

 

Le parole erano le mie boe, mi permettevano di rimanere a galla. Mi venivano a cercare come sogni che al mattino bussano in disordine contro la porta delle palpebre. Io le scrivevo al ritmo traballante della luce e dell'ombra che si alternano quando stai seduto vicino al finestrino osservando l'erba annuire al passaggio del treno e la rancida solitudine degli oggetti abbandonati lungo i binari.

 

Uscivano poesie, canzoni.

 

Poi viene il buio e un'autostrada.

Nel retrovisore il paesaggio

scivola vertiginosamente verso il passato.

Immagini:

camion immersi in un altro spazio,

inabbordabili,

guidati da entità oscure

nell'immensità della notte stellata;

paesi che spandono rare luci

come ragni tremuli;

un distributore di benzina

in attesa di un veicolo assetato.

 

Allineo parole sul filo teso della memoria

con la bramosia dell'alcolizzato

in cerca della goccia ristoratrice

attesa dall'alba fino all'apertura dei bar.

Poi d'un tratto smetto di pensare

come colto da un nuovo risveglio

e imbarazzato mi rendo conto

che mi sto esprimendo

come il paroliere di un tango.

 

 

Divenni un emigrante. La migranza è un'altalena tra luoghi, è uno yo-yo. Senza più appartenere alla partenza come all'arrivo, sei quello che ci sta in mezzo, la lunghezza della corda. Sospensione. Dal finestrino, osservavo il verde degli abeti alpini, le dita lunghe e slanciate delle conifere che puntano il cielo. Anche le piante sono lingue straniere. Io parlavo l'olivo.

 

Un emigrante non appartiene a nessun posto. Naviga senza ormeggi in un mare agitato.  Non gli sarà mai permesso di attraccare. I suoi dolori non saranno mai abbastanza tristi. Le sue gioie mai abbastanza importanti per contare qualcosa.

 

Sceso dal treno conobbi il razzismo. Non era timido. Era sfacciato. A Vienna sulle porte dei ristoranti si poteva leggere "Vietato l'ingresso ai negri, ai cani e agli italiani". In certi film di socond' ordine i nazisti sono spesso accompagnati da cani, generalmente doberman. Non mi stupii quindi che figurassero prima degli italiani. Ma mai capii il primo posto dei negri.

 

A Ginevra quando arrivai mi portarono in un enorme hangar. Eravamo almeno 300, catalogati come "stagionali". Ci dissero di spogliarci. La pelle bianca riflessa su altre pelli sembrava impallidire, divenire traslucida. C'è una vergogna che fa scomparire, incapace di tingere il corpo di un vestito di pudico rossore. In fila si attraversava un tunnel di lavaggio. L'odore del fenolo era assordante. Si avanzava mentre spruzzi maleodoranti ti disinfettavano per la foto ricordo: una radiografia ai polmoni per la TBC. In certe circostanze la nudità non ha niente di naturale. È un paradosso, ma la vita ne offre molti. L'orrore di quei momenti lo porto da allora sotto la pelle, è un tatuaggio al suo interno dalla parte degli organi. Non siamo concepiti per le umiliazioni che l'uomo riserva ai suoi simili. Ancora oggi il cartello stradale che indica l'ingresso in Svizzera produce in me un sussulto. E so che non me ne libererò.

 

La sera nelle mie case straniere accendevo una candela. Deve stare bassa, alla luce piace salire. La candela illumina il buio non lo scaccia. Al fuoco dello stoppino il bicchiere del vino nel vetro prende luce dentro, l'olio splende, il pane sente il fuoco e si mette a profumare. La stanza diventa più grande con una fiammella e le ombre ci fanno compagnia. Imparavo la solitudine.

 

Di giorno, il lavoro: il lavoro è questo starsene buono a farlo quando fuori c'è un sole basso all'orizzonte che subito finisce, viene sera e uno l'ha visto passare senza fargli un saluto. Il mare era oltre le montagne. A quello cercavo di non pensare.

 

Quando mi scappava la nostalgia del sale, mi figuravo le onde, quel grembo salato parente del ventre materno. Fuggivo allora cercando una maniera per ricongiungermi all'origine dispersa. Diffidavo dei paesaggi che offrivano le spiaggie, evitavo le cartoline, non consideravo lo spazio intorno a me: solo mare. Mi bastava la salamoia dell'acqua.

 

Ero turista nel mio paese giù in Costiera, luogo di ogni mia fuga. Quelli del mare, i pescatori, non sanno nuotare, non si concedono all'acqua. Il nuoto è roba di villeggianti che in mezzo alle onde ci vanno per sfizio e si mettono a bella posta sotto il sole. Il sole è buono per chi lo prende da fermo, sdraiato. Per chi lo porta sulla schiena, il sole è un sacco di carbone. Ai vecchi della marina sentivi il tabacco, il sudore, mai il sale.

 

Mi piacciono i racconti di mare. Io non lo conosco, lo vedo, ma non lo so. Per me è solo un modo di risalire oltre i ricordi. Mi riporta al ventre della madre, all'universo anfibio del prima. Al mare lego, inoltre, il senso del ritorno. Il mio mare è il sogno di Ulisse, un'Itaca perduta. "Torno al mare" è la frase stampata nella mia mente ogni volta che chiudo una valigia. Mi consola anche guardarlo da un aereo. E a lui vorrei ricongiungermi col tempo, sentirlo vicino nel momento del trapasso. A lui darò le mie ceneri.

 

Oltre le montagne cercavo la musica, qualcuno che me l'insegnasse. Lavorai con Harnoncourt, con Leonhardt, musicisti che amai. Ma di più amai Bruggen. Amavo i maglioni bucati che portava alle prove, i suoi capelli lunghi, la bottiglia di vino che divideva volentieri con noi dopo il lavoro. Intorno al tavolo, col rosso nel bicchiere, la musica si metteva a posto da sola, decantavano le emozioni, si smorzavano le tensioni. In quella Babele di lingue, di esperienze trovare armonia e accordo era magia, miracolo, era il reale e l'impossibile che vanno a braccetto.

 

Lavorando al loro fianco capii che le vite non scorrono parallele, non prevedono imitazioni. I destini sono opere uniche. Non volevo correre l'Europa con un flauto in tasca, cercavo un'altra strada, dovevo imparare a cavalcare la mia metamorfosi.

Stentavo, dubitavo. "E se fosse tutto uno sbaglio?" - mi dicevo - "La partenza, i saluti, la lingua persa?" Barcollavo tra il nulla e l'addio. "Non ci sono risposte, soltanto scelte" - mi diceva la luna nelle mie notti insonni.

 

Scrissi ad un'amica:

a volte la paura vince sul coraggio...

a volte la paura di perdere trionfa...

a volte le scelte si chiamano sbagli...

sussulto nel sonno,

come un cane che sogna il guinzaglio.

 

Mi sentivo in quei momenti come rivolto nella direzione sbagliata, intrappolato fuori della mia storia e incapace di ricalcare i miei passi perché le impronte erano state spazzate via come fa il mare sulla sabbia.

 

La Svizzera mi offrì un lavoro di insegnante. Avevo schiere di bambini con un flauto tra le labbra che sorridevano al mio improbabile francese. Escogitavo trucchi per farli innamorare dello strumento. Quell' innocenza era un cappotto per l'inverno, mi teneva caldo, mi avvolgeva e ogni settimana, grato, m'inventavo una storia nuova per loro. Avevo poco più di venti anni e giocavo al nonno. Ci vuole il tepore di un focolare per tenere viva l'attenzione di un bimbo, una pipa e un bel racconto. Conservo lo stesso spirito ancor oggi, non ho mai tagliato quel cordone ombelicale.

 

Faceva freddo oltre le Alpi, anche questa era cosa nuova. Il freddo mi saltava addosso, mi entrava dentro.  Con il caldo provo la sensazione inversa. Il freddo invade, il caldo assorbe. Mi piacevano però le tempeste sul lago, quando il vento si alzava e raschiava la superficie dell'acqua per portargli via lo zucchero bianco degli spruzzi.

 

Non avevo la televisione, non leggevo più i giornali, non bevevo aperitivi con gli amici, né parlavo di politica o di sport. "A forza di togliere, sottrarre e sottrarmi, a forza di cancellare tutto - pensavo - non dovrebbe restare più niente. Eppure mi trovo davanti all’immensità." Ma l'immensità è anche vuoto, inquietudine; è il mal d'Africa dell'anima. Il troppo confina con il niente.

 

Incontrai Paul van Nevel a Ginevra. Aprì una grossa valigia piena di birre e di bicchieri. Qualche manoscritto faceva capolino qua e là in quel disordine. Avvertii la grandezza in lui come un abitante del deserto sente l’acqua. Da lui ho imparato a fare l'artigiano. Ogni pezzo che suoniamo me lo trascrivo io. Mi piace sentire la matita sulla carta. La musica prima di suonare in testa deve passare per la mano. Scoppiò l'amicizia. Era sempre festa. Eccessivo, simpatico e profondo riusciva a tramutare ciò che è terreno in magia e a far evadere la mia anima dai ristretti confini della sua isola.

 

Ci incontravamo qua e là dove la vita decideva. Lo portai a casa, quella di Toscana. Appena arrivato andai ad abbracciare il mio olivo preferito. Mi guardò stupito. "Con quest'olivo non ho bisogno di parlare, nè di scrivere odi in suo onore." - gli dissi - "Amo i riflessi del sole sulle sue foglie, i puzzle d'ombre che ritaglia la luce, il rumore di vita sotto i rami, e l'odore del legno, la sera, dopo le giornate calde."

 

A Ginevra si spendevano le notti in chiacchere. Scivolavano veloci. Ci separava solo l'alba.

"Hai nostalgia?" - mi domandava - "No!!! - rispondevo secco - La nostalgia è il maldidenti dell'anima, indolenzisce le facce, i sorrisi. Sono fortunato, senza moglie e figli giù in Italia non ho un luogo verso cui voltarmi, vivo senza questo torcicollo." "Non ti manca il tuo paese?" - replicava - "Come hai potuto abbandonarlo?" "Non sento la mancanza, sento la presenza. Nei pensieri o quando canto, quando apro la bocca e ascolto un'altra lingua, sento la presenza del mio paese. Mi viene a trovare spesso ora che non ha più un posto suo." Facevo con i pensieri e le parole come il calzolaio con le scarpe. Li mettevo capovolti e li aggiustavo.

 

Scherzavamo, giocavamo con le nostre debolezze. "Niente donne, niente tabacco, niente alcol? - mi chiedeva - E così vivrò più a lungo?" "Non lo so - rispondevo - ma di sicuro il tempo passerà più lentamente."

 

Fu lui a inventare Daedalus, non lo fece apposta. Un giorno, alzo la cornetta del telefono. "Vorrei invitarvi a Bruge", mi disse in francese una voce. Era Robrecht Dewitte, uomo che ricordo con grande affetto. "Paul van Nevel, mi ha parlato del suo gruppo." Eravamo solo sei amici che avevano suonato ad un esame. Non avevamo un nome e senza un nome non si è niente. Mi piacque Daedalus, che trovai leggendo l'indice di un libro. Daedalus era il labirinto ed era il volo, profumava di erranza e di sogno.

 

C'era Maria Cristina, l'argentina; Koko, la giapponese; Renée, la francese; Otto, l'austriaco. C'era Hugh, il canadese e poi arrivarono i due Josep, catalani e Gerd, tedesco. Ne vennero poi ancora. Markus, finlandese; Marco e Leonardo, napoletani; Pascal, il parigino. Venne Margherita col suo accento bolognese e Maurizio di Palermo, "la città più a nord del Magreb", ci diceva. Ci fu Sophie, partita troppo presto, dopo due anni di dolori.

 

Sophie parlava poco. Una notte aprì il libro della sua vita, quel repertorio di segreti che le parole faticano a descrivere. Piangeva e parlava. Durò una notte intera. Quando l'alba ci sorprese richiuse quella porta. Mi regalò la sua storia, un segreto che non ho mai rivelato. Al suo segreto, segretamente, dedicai le Lachrimae di Dowland.

 

Quando mi comunicarono il suo decesso, le ho scritto:

"Ti ho chiamata Sophie. Ho parlato alla tua segreteria. Volevo ascoltare la tua voce, Sophie. Non mi richiamare mi basta il suono registrato, il tuo messaggio. Lo sai. È il mio modo di farti compagnia." Come un rito da due anni ripetevo le stesse parole, senza preoccuparmi di una risposta. "Buon vento - aggiunsi quella sera - fai buon viaggio, amore mio".

 

Affidai le mie parole a una bottiglia, la misi in mare. Il vento e le correnti sono postini, l'avrebbero portata oltre le Colonne d'Ercole nel paese delle anime.

 

Abitarono in molti casa Daedalus, mi piaceva ospitare diversità e nazioni. "Fai collezione di bandiere" mi prendevano in giro gli amici. "Accolgo le loro storie - rispondevo - e poi le faccio cantare. Per entrare nel mio gruppo non servono diplomi o audizioni. Basta una bella storia da raccontare. Se ti senti a casa tua suoni meglio e la musica profuma di cucina. Io arrivo alla fine e metto il sale."

 

Terminata la registrazione di questo CD, tornando in treno verso casa, Silvia mi ha confessato: "Solo tu puoi mettere insieme persone così diverse. Li fai sentir vicini, li fai sentire amici, ci si vuole bene". Avrei dovuto risponderle come fece mio padre a mia madre, prima che abbandonassi il loro tetto. "Siete voi la patria mia", ma ero distratto ascoltavo la canzone dei binari.

 

 

 

Roberto Festa

​

1) Non c'è tempo da perdere/ L'ho sentita che diceva/ Spendi i tuoi sogni prima/ Che scivolino via/ E muoiano./ Se perdi i tuoi sogni/ Perderai la testa (Ruby Thursday, Rolling Stones)

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